sabato, dicembre 22

Regalo di Natale

Dopo Vincent Perez, Eric Clapton, Mick Jagger, Donald Trump, Kevin Costner, Jean-Paul Enthoven padre, Raphael Enthoven figlio...



mercoledì, dicembre 19

Angeli senza ali

Terza ed ultima parte (segue dalla prima e seconda parte)

Fu un viaggio lunghissimo, superò deserti, oceani, tempeste di fuoco, sfiorando il limite del cielo dove non le era consentito andare. Lontano dalle terre emerse, dove ancora nessun uomo era giunto, il continente di ghiaccio.

Nel cuore di questa non-terra, sorta prima di ogni terra, dopo la creazione, c’era quello che nessun uomo poteva immaginare e vedere: il cimitero degli angeli. Milioni di corpi racchiusi nelle montagna irta di ghiaccio, intatti, con dentro l’ultimo soffio divino, il segno di un rito che si ripeteva dalla prima morte di un angelo uomo.

In uno dei tanti anfratti spigolosi, ma non casuale, depose il corpo del suo compagno, gli aprì delicatamente la bocca e gli inalò l’ultimo respiro. La Natura avrebbe provveduto al resto. Gli angeli non erano stati fatti di terra ma di etere e solo il soffio di Dio li accomunava all’uomo. Alla fine della colpa, si sarebbero involati verso il Signore, tutti insieme perché il loro era un unico destino. Un atto di amore sarebbe bastato, un atto di amore era il celato desiderio.

Lei attese un giorno e una notte, immobile, si ricoprì di brina, come una statua di ghiaccio, attese che gli elementi sigillassero il giaciglio mortale. All’uscita del sole freddo, uno spettacolo incredibile, lo sapeva, già c’era stata una volta con il compagno, a portare qualcuno... I raggi entrarono tra le pareti, le crepe, le fessure, le stalattiti, tra le rocce puntute di ghiaccio, trapassarono ogni angolo e con un infinito gioco di riflessi la montagna esplose in un trionfo di luce.
Distese le braccia, quasi a dispiegar le ali che non aveva. Immersa nella luce folgorante, inspirò profondamente chiudendo gli occhi; con un fremito del corpo e agitando la chioma fluente si liberò della brina e per qualche istante fu immersa in una nuvola di gocce accecate dal sole. Tornò il candido sorriso, toccò la tenera lastra di cristallo che si era da poco formata, per un ultimo saluto. Poi si accostò ad un altro sepolcro di ghiaccio, una piccola teca trasparente, anche qui pose la delicata mano; dormiva il suo lungo sonno, serenamente, un candido corpicino alato, il frutto dell’amore. Un’altra storia, un altro piccolo dolore, ma anche un’altra speranza, una futura gioia.

Così era lì, la sua vita il cuore e il destino.


Il giorno prestabilito il ragazzo si fece trovare sulla riva del lago. Sapeva che era molto rischioso perché al villaggio gli avevano riservato una sorveglianza speciale. Si mise a scrutare il cielo dinanzi la montagna, come faceva di solito.
Un tocco lieve alle spalle, lo fece girare di scatto. Perché era sempre la prima volta che la rivedeva? perché era così gioioso da non riuscire a profferire parola?

“Ti sento affannoso!”

“Sto bene, è che sono felice”

“Sei felice? Cosa significa essere felice?”

“Un angelo come può non sapere?”

“Uomini strani: tolgono la vita e poi cercano la felicità. La vostra felicità deve essere diversa dalla nostra”

“La mia felicità sei tu!”

“Io…?”

“Voglio venire con te

“Tu vuoi..? vedi io chi sono?”

“Sei un angelo!”

“La mia è una vita diversa da quella di voi umani. Dovresti rinunciare a tante cose. Voi uomini avete l’amore del Signore e sembra che non sappiate cosa farvene, non potete immaginare quanto Lui vi ami. Ed anche noi angeli vi amiamo, è tanto grande il nostro desiderio che vedendo voi vediamo Lui. Oh Padre, perché fosti così crudele con noi? Torna dalla tua gente, hanno ragione. Io sono un’anima dannata!”

“No, tu sei un angelo. Qualsiasi punizione Dio vi abbia inferto, non vi ha mai separato dalla vostra natura divina. Noi uomini non possiamo volare”

“Non è così. Voi uomini, ignari… alcune volte dimenticate che Lui vi ha creato, non vi rendete conto di quali essenze siete fatti. Uomini… uomini…”

“Cosa vuoi dire?”

“La terra è la vostra casa solo perché non avete le ali?”

“L’aria è degli uccelli e degli angeli”

“Gli uccelli hanno le ali. Ma io non ho le ali. Vorrà significare qualcosa?!”

“Tu voli leggera nel vento… anche se hai perso le ali”

“Il desiderio dell’Amore mi fa sollevare nell’aria. Io tendo verso il mio Amore”.

“Ma.. anche io amo…”

“Ami il Signore quanto lo amo io?”

“Veramente non saprei… io sono sicuro di amare te”

“Me? Un uomo che ama angelo del peccato originale?

“Ti amo, non è strano. Se ti amo è possibile. Io amo perché non ho visto in te il peccato”

“Mi ameresti a tal punto da lasciare gli uomini?”

“Sto qui per questo”

L’angelo si commosse. Gli occhi scintillarono di lacrime gioiose.

“Perché?”

“Dio, Padre nostro… grazie “

Il pastore sorrise e ripeté: “Perché?”

L’angelo si riprese. “Mi ha perdonata… Lui, sì… mi ha perdonata”

Il ragazzo scuoteva il capo in cerca di spiegazioni.

“Se ha permesso alla sua creatura più amata di innamorarsi di un angelo, vuol dire che mi ha liberata dalla colpa”

“Ma ciò è meraviglioso. Ciò è… cosa significa?”

“Significa che ora posso tornare a Lui, io posso tornare “

“Oh Dio mio! Se tu torni a Lui ti perderò, non potrei sopportarlo, no…“

“Vuoi venire con me? Per seguirmi devi imparare a volare. Tu puoi”

“Io posso volare?”

“Vieni, dammi la mano”, lo tirò nell’acqua bassa.

“Ora correrai insieme a me, avanti”

Ci furono diversi tentativi, il ragazzo nel momento dello stacco cadeva goffamente in acqua

“Non ci riesco, è impossibile!”

L’angelo lo guardò sconsolata: “Allora io vado”, disse con una luce negli occhi.

Il ragazzo si rialzò: “Tu non andrai da nessuna parte senza di me, continuiamo”

Lo prese ancora per mano.
Un grido di attacco dalla foresta, i cacciatori con le lance alzate uscirono allo scoperto e lo stregone in persona con il braccio puntato verso di loro.

“Ora, è il momento! corri veloce, corri”

Il ragazzo si mise a correre, ma non si alzava, “non ce la faccio, vai tu, salvati”.

“Corri! Hai amore?”

“Sì, Dio, sì…”

“Lo senti l’amore che ti solleva?”

“Sì, sì ho amore, ho amore, oh Signore…”

Lance e frecce sibilavano su di loro.

“Io amo… non ci riesco…”

“Guarda i piedi!”

Il ragazzo stava sfiorando la superficie delle acqua profonde senza affondare.

“Sto volando… io sto volando…”, in quell’attimo una freccia lo colpì dalla spalla trapassandogli il cuore. Il ragazzo spalancò gli occhi.
L’angelo lo tirò più su, lui ora volava. Insieme salirono più in alto del cielo, più in alto delle stelle, verso l’Amore agognato.

martedì, dicembre 18

La Divina





Volevo postare gli angeli, posto la Divina, cogliendo l’umore odierno della combriccola. Sempre di venerazione si tratta.

Esiste sì, con leggerezza, su una dolce collina, ama essere riverita e ammirata. Infatti, il ridente paesino ai suoi piedi non può che chiamarsi “Colle amato”.

Regina del piccolo Regno del Bosco di Sopra, terra di castelli, di fate, di trifole e di lupi voraci, facciamo un inchino a Farfy la Divina.

domenica, dicembre 16

lunedì, dicembre 10

Moïse (Alfred de Vigny, 1822)

Moïse (Alfred de Vigny, 1822)


Il disait au Seigneur : « Ne finirai-je pas ?

Où voulez-vous encor que je porte mes pas ?

Je vivrai donc toujours puissant et solitaire ?

Laissez-moi m’endormir du sommeil de la terre ! »


sabato, dicembre 8

Luttazzi cacciato da La Sette

Il video incriminato, va già meglio.

Tuttetette


Farfy mi aveva regalato un biglietto circolare per i night club. Con mio grande disappunto mi sono accorto che non esistono più, sono scomparsi all’inizio degli anni 60. Dunque ho ripiegato nei soliti pub, che ormai mi hanno alquanto sfrantumato i cocomeros, per la noiosa presenza delle solite facce di catzo del venerdì notte, fricchettoni montati e baldracche tirate in cerca di polli da spennare.

I night club erano localini alquanto chic dove si andava per lo più per assistere a qualche spettacolino di spogliarello, l’aspetto elegante dava una sensazione di perbenismo che agevolava l’ingresso ai finti moralisti, magari in compagnia delle mogli, finte moraliste anche loro.
Per non venir meno all’omaggio di Farfy, appigliandomi al fatto che lei ha detto che su questo blog faccio troppa cultura e non avendo capito a quale cul… tura si riferisca, questa volta allora tralascio la cul… tura e scriverò di tette.
Potrei iniziare con: dimmi che tette hai e ti dirò chi sei. Ma non voglio fare un test, sarebbe troppo semplice dire che una donna con le tette flosce è triste, non è vero, al limite si potrebbe scrutare il carattere dalle forme.
La moda delle tette grosse è stata trasferita in Italia dai soliti Americani, negli anni Cinquanta. Si sa, quello è un popolo di bambinoni, legati al latte materno. In precedenza agli Italiani il volume delle tette non diceva molto, o quasi. Nella cultura Occidentale antica il seno era collegato alla procreazione. Non si considerava la grandezza ma il numero, più tette c’erano (Artemide efesina) più figli si potevano allattare. La lupa capitolina è simbolo di fertilità, perché riesce ad allattare i due bimbi grazie alle sue molteplici mammelle. Poca importanza era riservata alla grossezza, difatti nella figurativa antica (Afrodite al bagno greca, Dea dei Serpenti minoica, Isthar dea dell'amore e fecondità assiro-babilonese) non esistono immagini femminili con seni prosperosi, Diana la dea della caccia era addirittura senza una tetta. Invece nella penisola indiana in genere i grandi templi hanno le pareti decorate con bassorilievi di donne tettute, ma anche scene erotiche perché le religioni orientali sono pervase di quella sensualità che in Occidente si perse con l’avvento del Cristianesimo. In Giappone, per gli stilemi della la bellezza classica giapponese, ancora non inquinata dal modernismo occidentale, si consideravano volgari le labbra grosse e si preferivano le tette piccole virginali.
Tornando in Italia, all’epoca delle maggiorate, l’ unica vera tettona tra le nostre attrici fu Sofia Loren, per questo è ancora amata nei USA. Le sue tette competevano con quelle dell’americana Jayne Mansfield, la sfortunata vamp dal tragico destino. La Mansfield non aveva un seno eccezionale, riusciva con artifizi, a farlo sembrare più grosso, lo stesso faceva la Monroe.
Poi vennero gli anni 60 e 70, il femminismo e le taglia grissino. Solo Fellini manteneva la barra dritta verso i suoi sogni. In ‘Casanova’ andò a ripescare un’anziana pin up americana, dalle tette mostruose, solo lui se lo poteva permettere, in nome della cultura, la cultura di Farfy.
Negli anni Ottanta le cose cambiano, tornano prepotentemente i gusti americani. Una cantante country, Dolly Parton, già coniglietta di Play Boy, è bionda cotonata, occhi azzurri e soprattutto tettona, tutte le caratteristiche per diventare un’icona americana, tanto da essere immortalata da Andy Warhol. In Italia ce ne saremmo anche stati tranquilli se un certo individuo, con la fissa delle tettone, non si mette in testa che per lavorare nelle sue tv private le donne devono avere almeno una quarta. “Drive in” è l’apoteosi delle tettonate, salgono sugli altari Carmen Russo e Sabrina Salerno, persino Lory Del Santo si tira su quel poco che ha per lavorarci. Le donne dello spettacolo, per non venir tagliate fuori, per colpa di ‘sto nano, corrono in massa dai chirurghi plastici, prassi ormai corrente che segue il motivetto: "Ma ando' vai se le tette nun ce l'hai!". Un’altra americana, Wendy Windham, sbarca in Italia col vento in poppa, non sa fare niente, solo ridere, ma ha una sesta misura e può bastare, con lei la tv italiana tocca il fondo del nulla assoluto (a parte la De Filippi). Il regista Tinto Brass, fa una parentesi dalla sua parte preferito, e lancia due attrici, a tuttatetta, Debora Caprioglio e Serena Grandi. All’arrivo della Grandi non ce n’è più per nessuna; Carmen Russo chiude il siparietto e punta alla danza turca. L’ultima stella tettonata naturale del cinema italiano è Sabrina Ferilli, ma decisamente non le stanno in piedi.
Ritornando in USA un’attrice latino-americana Salma Hayek, dichiara che la crescita delle sue tette è il risultato di una preghiera, forse anche il matrimonio con un multi-sfondato-miliardario è frutto di un rosario. Se Salma dice il vero, allora Norma Stitz: the world's largest breasts and the Guinness Book of World Records, avrà fatto dire messa in convento ogni giorno da un esercito di suore,
l’ immagine è eloquente.

lunedì, dicembre 3

Ofidius

Ed eccomi a .ozzana, un paesetto a 630 metri di altitudine. Ho preso alloggio da un affittacamere, un palazzotto ridipinto molto deprimente, ma è quello che volevo. Tutto intorno è un mortorio, anche le auto disertano, ultimo baluardo della civiltà, questo luogo. È utile per meditare, se ci fosse da meditare, ma non c’è nulla che dia ispirazione. Gli abitanti sono avanti con gli anni, chiusi nelle loro case o al lavoro. La spesa la fanno in una località vicina. Sono poche dimore raggruppate lungo una strada con intorno montagne brulle. Il primo giorno lo superai agevolmente, la curiosità era ancora accesa, ma il giorno dopo, verso il pomeriggio, mi colse un senso di soffocamento. Il paese era tutto lì. A quel punto per non morire di noia dovetti intrattenere relazioni con i locali.
Incominciai con il mio locandiere, il signor Rizzi una persona affabile che gestiva la sua famiglia come le sue camere. Aveva due figlie che frequentavano il liceo a 30 Km da casa e un maschio carabiniere in Toscana. Abitavano al piano terra, un lussuoso nido imbottito di legno, accogliente e caldo. Era bassa stagione e si poteva dire che ero l’unico della pensione, a parte qualche giornaliero. Non avevo preventivato quanto rimanere e il signor Rizzi si prodigò a rendermi il soggiorno interessante, le sere successive non mancò di invitarmi a prendere il tè. Così potei conoscere la sua famiglia, le sue amicizie e parentele. Cercava di indirizzarmi nelle suggestive località dei dintorni di .ozzana. Ma erano sempre di altri centri abitati. Per un raggio di 30 Km .ozzana era il deserto e nemmeno gli sforzi mnemonici del signor Rizzi potevano cambiare questo stato di fatto. Una settimana trascorsa sballottato come una pallina da ping pong tra una località e l’altra. La domenica, sceso alla buon’ora trovai il signor Rizzi pronto a darmi un nuovo suggerimento. “Perché non viene alla sorgente della Fuca?”. Pensai, prevenuto, a qualche posto remoto. “No, grazie. Oggi preferisco riposarmi”. “Ma è vicino…”. Lo guardai interrogativo, sapevo cosa significava ‘vicino’. “Un quarto d’ora di auto”, continuò con voce sommessa. Mi sedetti al tavolino d’ingresso. “E cosa è questa sorgente?”, già immaginavo un rivolo insignificante. “Non è proprio la sorgente ma un’abitazione che sorge nei pressi. Ê di un mio vecchio amico. Oggi vado a prendere alcuni prodotti che fa lui. Sembra che sia tutto fermo all’ ‘800. Vedrebbe la casa antica con la stalla e come si fa il formaggio con i vecchi metodi”. Guardavo il pavimento in cotto, era la prima volta che lo notavo, aveva intrusioni vitree molto interessanti.

“Allora viene?”.

Mi girai intorno. I miei occhi si spinsero sulla strada, oltre le viuzze laterali che, sapevo, sbucavano nel nulla.

“Va bene!”, perentorio.

“Allora, tra mezz’ora. Aspetto l’ arrivo di mia moglie e andiamo”.

(……………)

Maudette prese la brocca e gettò dell’acqua nella bacinella. Si lavò il viso, poi si alzò le larghe maniche della veste bianca, si voltò verso Ofidius e gli indicò l’uscita.
Ofidius si ritrovò al margine di una distesa di erba alta, sotto una luna avara. La casa in cui abitava Maudette era di pietra scheggiata e mattoni secchi, col tetto di ardesia; il suo volume, netto e chiaro, doveva apparire da lontano come un biancheggiante fantasma, unico frequentatore di quei luoghi. Ofidius non poteva fare a meno di scrutare la fitta vegetazione, aveva la sensazione che qualcosa stesse lì nascosta a spiarlo. L’impossibilità di penetrare con lo sguardo l’intricata matassa non lo faceva star tranquillo. Sicché ad ogni minimo rumore scattava in allarme. Si portò all’uscio e chiese a Maudette di entrare. “Solo un momento…ecco, ora puoi entrare”. Nel rivederla, dopo solo pochi minuti si sentì rassicurato, le parve ancora più bella, e percepì in un istante che la sua inquietudine esterna non era stata causata dalle alte ombre della vegetazione. Non riusciva a toglierle lo sguardo, camuffava la sua fissità con un apparente disinteresse ed ogni volta che lei lo incrociava, deviava la vista verso angoli insignificanti della grande stanza. Maudette era una ragazza dalla pelle bianca e rosata, cresciuta in quelle vallate dall’aria pulita e rarefatta. Si portò le braccia dietro la nuca per tirarsi e stringersi con un laccetto i folti capelli biondi. Sapeva che Ofidius la fissava e le scappò da ridere. Naturalmente questo destò la curiosità di lui.

“Che c’è?”

“No, niente stavo pensando a una cosa…”

Ofidius prese lo spunto per rompere il silenzio.

“A che cosa?”

Maudette, con quel sorriso malizioso, tipico delle donne che già sanno le risposte degli uomini:

“Perché mi guardi?”

Ofidius si sentì spiazzato ma subito si riprese e decise di contrattaccare nonostante gli occhi della ragazza su di lui lo imbarazzassero un poco:

“Perché sei bella!”

Maudette ebbe una vampata di rossore che cercò di nascondere chinando il corpo. Ritenne opportuno tagliare il dialogo:

“Si è fatto tardi…, domani devo alzarmi alla buon’ora”

“Cosa farai domani?”

“Scendo giù in paese, a portare i formaggi”

“Ma non è una cosa che fa tuo zio?

“Si, ma ora non c’è ed allora gli do una mano”

“Ti accompagno?”

Maudette accennò un movimento col capo, non voleva essere una risposta ma solo il segno che aveva recepito la domanda. Si diresse verso la sua camera.

Sicché all’alba, quando il sole era ancora sotto i monti, Maudette si allontanò col carretto e l’asino Michele, lasciando Ofidius beatamente dormiente tra i morbidi guanciali di lino.
Quando i tiepidi raggi forando l’oblò lambirono le lenzuola, allora si rese conto che il tempo era passato. Si alzò velocemente e chiamando Maudette si incominciò a vestire velocemente. Scese le scale di corsa e superato il salone con due balzi si ritrovò in cucina. Maudette era intenta a preparare il caffé.

“Buongiorno! Bella dormita, eh?”

“Non dovevi scendere in paese?”

“Già fatto…vi siete presentati?”

“Cosa?”

“Ora vi porto il caffé”

Rientrando nel salone fu scosso da una voce squillante che lo salutava. Era un giovanotto, seduto sul largo parapetto della finestra, di cui prima non si era accorto. Ofidius gli si avvicinò porgendogli la mano. Non era molto contento di quella presenza. Nel silenzio che seguì fece mille pensieri. Quando la ragazza entrò si rese conto che i due non avevano socializzato.

“Bene, bene…allora Ofidius come hai dormito?”, Maudette avvicinò il vassoio con le tazzine.

“Beatamente, però potevi svegliarmi!”, Ofidius guardava il modo di porgere il caffé ad Arthur, cercando un segno di intesa tra i due, una civetteria, un sorriso complice.

Maudette incominciò a parlare con Ofidius sembrando non interessarsi alla presenza di Arthur. Questa cosa però non piaceva ad Ofidius, infatti pensava che se lei non dedicava al giovane alcuna attenzione era perché tra i due c’era già una certa confidenza. Trasformò il pensiero direttamente in parole: “Maudette, ancora non mi hai detto il motivo della visita del tuo caro amico”. La ragazza lo guardò un po’ confusa.

“Ma chi, Arthur?!”. Il giovane si mise a ridere. “È il figlio dello spaccista, è venuto a prendere i formaggi”.

Dopo quella risposta Ofidius sembrò acquietarsi. Ma aveva marcato con un certo tono quel ‘caro’ e stizzito con se stesso per aver scoperto così ingenuamente le proprie carte, in presenza di quell’Arthur, si relegò dinanzi la porta aperta , deciso a starsene da parte. Quando si voltò, non c’erano più. Maudette aveva accompagnato Arthur al carro, passando dalla cucina. Ofidius si spostò alla finestra per osservarli. Si salutarono sfiorandosi le guance; questo gli provocò uno stato di agitazione.

Gli saltò alla mente la capacità di collezionare rinunce, l’immarcescibile vizio di non approfittare delle occasioni, anche quando gli cadevano sulle mani. Capitava che una serie di circostanze si concatenavano a suo favore, come se un disegno divino volesse fargli un dono, ma lui aveva la dote naturale di immettersi nell’unico spiraglio sterile delle possibilità, scartare la fortuna per continuare a sferragliare sul binario morto della sua esistenza.