sabato, gennaio 31

La democrazia questa sconosciuta




La legge sulla privacy è una gran bufalata. Dopo aver raccontato vita e miracoli della tua esistenza, firmando il consenso, consenti alle banche di farsi ufficialmente i cazzi tuoi, la firma poi è obbligatoria altrimenti non puoi accedere ai servizi, quindi l'obbligo è un escamotage per aggirare la privacy effettiva del cliente, illegale ma in questa nazione è da parecchio che le parole hanno perso il loro significato originale.
E questo vale anche per ogni genere di servizio che va dalla comunicazione alla vendita, l' obbligo del consenso, significa che il trattamento dei tuoi dati sarà gestito nel modo più favorevole all'azienda con la quale interagisci.
All'origine di ogni dinastia reale o imperiale, c'è sempre una dittatura. È un meccanismo univoco. L'Impero romano nacque dalla dittatura di Cesare, l'assassinio non risolse la questione 'che fu un tentativo di cambiare gestore, la linea di governo era segnata, i dittatori successori furono chiamati più elegantemente imperatori. Quando i rappresentanti di un parlamento gestiscono a tempo indeterminato il loro incarico, mediante leggi che di fatto bloccano le nomine, allora quello Stato ha seri problemi di democrazia. Non è una dittatura ufficiale, perché manca una figura unica, ma di fatto è una dittatura parlamentare. E come ogni dittatura che si rispetti, una volta iniziata non finisce più, perché è introdotta per legge, che il cittadino deve accettare, come il consenso sulla privacy; consente ai caporioni del consenso, di decidere i successori, quasi come una dinastia reale. La cosiddetta legge sulle intercettazioni, voluta da entrambi gli schieramenti ovviamente, è un'altra legge che serve ad immettere uno strumento di giustizia nell'alveo del controllo dell'attuale potere eversivo politico; uno strumento che prima era nelle mani del potere legale della magistratura democratica. La legge non vieta nulla, dispone solo chi debba avere il controllo delle intercettazioni, cioè il parlamento. Questo si chiama ACCENTRAMENTO DI POTERE. La libertà del cittadino è ancora più ridotta.
aggiornamento al 1 febbraio
Le parole del Presidente della Corte d'Appello di Milano Giuseppe Grechi, in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, in coda alle dichiarazioni sul caso di Eluana Englaro suonano da monito per un pericolo che non è una fantasia ma una triste realtà di questa nostra nazione: "La Costituzione è fondata sulla separazione dei poteri e per cui un potere non può interferire con un altro... né il potere legislativo, né il potere esecutivo possono porre nel nulla le sentenze definitive".
Sarebbe superfluo dire che queste affermazioni hanno destato l'immediata protesta dei rappresentanti delle Camere, una coda di paglia incendiata.

martedì, gennaio 27

Villa Sara e la filantropia dei soci CAI







Alla fine del Cinquanta Ponti acquistò a Marino, una prestigiosa dimora seicentesca in rovina: villa Sara. Decise di farne un nido d'amore per lui e la sua compagna. I lavori di restauro gli costarono una fortuna: 50 stanze, foresteria, pinacoteca con la sua collezione di 150 opere di grandi artisti, un casino di caccia, un cinema adattato in quella che era la stalla, una cappella privata, un maneggio, una voliera, una piscina...
La ristrutturò e arredò, bisognò dargli merito di averla recuperata ma a onor del vero non fu un restauro propriamente detto, fu piuttosto un'interpretazione favolesca, certamente eccessiva, pomposa, che seguiva i gusti e i sogni del proprietario.Oggi sarebbe pacchiana ma a quei tempi era ancora sinonimo di finezza. Si guardava ai reali d'Inghilterra, gli industriali, gli imprenditori arricchiti miravano alla visione stereotipata della eleganza nobiliare, anchilosata agli arredi degli avi. Stucchi, dorature, decorazioni, rilievi, tappeti, tessuti damascati, baroccheggiamenti, statue antiche, vasi cinesi, porcellane antiche, un'orgia di argenti, pezzi di antiquariato sparsi ovunque, un'opulenza in ogni angolo, la grande vasca della fontana venne trasformata in piscina, un intervento filologicamente non corretto. Tutto doveva concorrere all'idea che ci si trovasse al cospetto di una piccola Versailles, abitata da un re ed una regina. E infatti fu proprio così. Attori di Holliwood andavano a trovare la principessa del castello e restavano affascinati da tanto sfarzo, che cosa era se non un'americanata? Come ricordava Loren furono gli anni più belli della sua vita. Fu abitata dal 1960 al 1977 anno in cui decisero di trasferirsi negli Stati Uniti, Ponti aveva capito che la finanza gli stava addosso. Nel 79 Ponti fu condannato a quattro anni più 22 miliardi di multa per esportazione di valuta, l'immobile fu sequestrato, molte opere della pinacoteca e gli arredi furono messe all'asta per pagare il fisco. La villa fu lasciata a se stessa, disabitata, senza una sorveglianza decente, perlustrata da numerose visite di ladri, anni di abbandono la riportarono ad una condizione di rovina. Dopo un lungo e penoso iter giudiziario, in cui bisogna contare nel 1983 anche un volontario ritorno in Italia della Loren per scontare due settimane di carcere a Caserta, la villa finalmente ritornò ai proprietari, la loro residenza era in America, una lussuosa villa in California che nel 2006, già trasferiti in Svizzera, fu venduta per 9 milioni di dollari. Nel 2003 La famiglia Ponti ed eredi trovò finalmente un compratore adeguato per villa Sara, l'ambasciatore di San Marino presso l'Egitto e Giordania, Giacomo Maria Ugolini, un intraprendente signore di 80 anni. Si pensò ad una rinascita della villa. L'intenzione dell'ambasciatore era quella di trasformarla nella sede 'prestigiosa' di un non meglio precisato "Libero ateneo internazionale per lo studio del mistero dell'uomo e lo sviluppo della potenzialità umana". Naturalmente non se ne fece niente, la villa passò di mano e andò a finire agli Angelucci, imprenditori nel campo sanitario del gruppo Tosinvest, editore di 'Libero' e de 'Il Riformista', e attualmente nel gruppo CAI. La villa ha il vincolo del Ministero dei Beni Culturali, la sua destinazione d'uso è di residenza privata. Gli Angelucci incominciano i lavori di restauro. Il 23 gennaio 2007 la procura di Velletri sequestra il cantiere, i proprietari avrebbero effettuato lavori abusivi in difformità alla destinazione d'uso. L'intenzione sarebbe stata quella di trasformarla in una clinica privata. Quanti danni e quante manomissioni abbiano provocato su questa sfortunata villa, ora non si sa. Si vociferò che gli Angelucci si erano offerti di comprare lo stabile del Forlanini, in dismissione, e trasferire le attività sanitarie proprio a villa Sara, attualmente la struttura medica del Forlanini ha trovato sede al San Camillo. La sanità nel Lazio è un'attività che segue una via anomala rispetto al resto d'Italia, considerando che il 50% delle strutture sanitarie è in mano ai privati. La villa Sara è ancora in attesa di trovare una sua collocazione, il suo destino era nelle mani degli Angelucci, che come imprenditori sanno attendere il momento propizio per far rendere la proprietà con la minima spesa, come CAI docet.

sabato, gennaio 17

Due pesi, una misura (la sesta)


Ultimamente assistiamo ad un'esacerbazione in tv di un certo tipo di soggetto femminile, anche chi non frequenta certi programmi televisivi è costretto a conoscerli perché stampa e notiziari ne dilatano la presenza.
Donne che nella vita farebbero le prostitute ad ore, si mettono nel letto di un potente, sgradevole quanto sia, per guadagnarci di più ed entrare nel mondo dei lustrini, per la
quasi totalità televisivo; essere rispettate e riverite, col baciamano d pezzi grossi della politica,
della chiesa, della finanza e dello spettacolo.
Non c'è quindi da meravigliarsi che alcune giovanissime e procaci fanciulle, spuntate dal nulla, si
ritrovino ad un tratto in tutti gli avvenimenti mediatici legati al piccolo schermo. Non è una novità, solo che ora si fa alla luce del sole, in maniera spudorata senza più scandali, senza più
rivendicazioni sulle raccomandazioni, senza più pretendere che la mignottella, balzata dal letto del suo protettore al palco televisivo, sappia almeno fare qualcosa, oltre che scopare. E perché? perché chi è al potere alimenta questo mercato di scambio. Le puttane dei potenti sono una categoria protetta.
Ci sono due gradi di prostituzione, quella bassa e quella alta. La prima viene considerata
immorale, anche se per sussistenza personale, e perseguitata per legge se fatta in strada,
è più facile moraleggiare sui deboli. Poi c'è quella a livello superiore, a uso e
consumo dei potenti che curiosamente non viene considerata immorale. Uno ci provò e finì al
rogo, lasciando come ricordo una sedia. Ricapitolando, i ricconi possono bazzicare tutte le
puttanone che vogliono, anche dieci, in una sola notte di orge, nel pieno rispetto della legge
Carfagna, senza essere considerati 'zozzi', solo perché possono permettersi di portarsele al chiuso di un confortevole albergo, e non per questo non sono puttanieri; privilegiati giocatori di calcio o onorevoli deputati, alti dirigenti pubblici, oppure vecchi bavosi invitano a pagamento o con promesse di spettacolo, pulzelle appena maggiorenni, nei loro palazzi graziosi senza ricevere il disgusto dell'opinione pubblica, qualora se ne accorgesse, ma anzi ottenendo ammirazione! Invece i poveri clienti e le operatrici più disgraziate, costretti ad andar per strada per mancanza di mezzi, sono additati come depravati e denunciati, oltre ad essere esposti alla gogna della pubblicazione.
La legge non è uguale per tutti, soprattutto quando è fatta da chi non è uguale agli altri. Le
prostitute protette dai potenti sono 'signore', le prostitute per strada sono 'puttane'. I potenti che
vanno in giro con le puttane sono playboy, i poveracci che raccattano una prostitute infreddolita
per strada sono dei porci. È la vita.

domenica, gennaio 11

Il luogo inatteso (4)

(segue dalla 1-2-3 di un post precedente)

Meryame
L’ondeggiare della bianca veste e il suo scivolare sulle dune mi era noto, la figlia dell’oste. Quella presenza inaspettata mi indisponeva, già pensavo alla battuta d’arresto, dopo tre ore di cammino e ad appena un’ora dal primo pozzo, sarei dovuto tornare indietro. L’attesi con le mani sui fianchi, decisamente contrariato: “Anche di corsa …! Ma che diavolo ci fai qua?” “Tu che diavolo ci fai qua?”, certo che alla ragazzina non mancava la parola, anche nell’affanno. “Ok, prendi fiato”, guardai da dove era spuntata, “sei arrivata sola?”. Confermò col capo. “Dunque? Perché sei venuta, devi avvertirmi di qualcosa?”
-Cosa ti ha detto mio padre? - perentoria.
-Prego?
-Cosa ti ha detto mio padre su mia madre?
-E tu hai affrontato il deserto per chiedermi ‘sta cosa? Non facevi prima a dirla a tuo padre?
-No!
-No?
-Noo! Mia madre è morta?
Restai senza parole.
-Lo so, mia madre è morta.
-E se lo sai, perché me lo chiedi?
-Che ti ha detto?
-Non capisco, che doveva dirmi?
-Non ti ha detto come è morta?
-Tu mi chiedi cose… ragazza… perché doveva raccontarmi fatti della vostra famiglia, io ero solo un cliente, uno che passa e se ne va”
Buttò gli occhi a terra, sconsolata, i lunghi capelli neri le coprirono il viso,“che stupida!”
“Parli bene l’Italiano, brava”
“Io sono italiana”, alzò la testa.
“Ah già, tuo padre mi ha detto che tua madre era italiana”. Guardandola meglio, mi accorgevo che lo scuro della sua carnagione era da attribuire in parte all’ambra del sole e in parte ad uno strato di nero fumo forse di qualche focolare notturno (in seguito ne ebbi conferma).
“Era…era?”
“Oh cavolo, mi hai detto che lo sapevi!”
“Maledetto! Maledetto!”, strinse i pugni”
“Ehi, calma, che c’è?”
“Ha ucciso mia madre, è stato lui, lui…”
Pensai, eccomi in una situazione per nulla agevole, gestire i sentimenti devastati di una perfetta estranea. Doveva avere 16, 17 anni e in corpo un rancore covato che ora esplodeva in mia presenza nel mezzo del deserto.
Si accasciò stremata. Mi inchinai e la guardai negli occhi, “Beh?” Le strinsi le spalle
e la risollevai. “Senti, ora dobbiamo ritornare…”
“Se torno lo uccido…”
“Ma… dici sul serio?”, le alzai su il mento, aveva uno sguardo sprezzante, di odio estremo che non avevo visto a nessuno. Gettava fiato come fiamme, non trattenne più, scoppiò a piangere.

continua... (il racconto di Meryame)

venerdì, gennaio 9

Zoccola di classe



continuando l'argomento di un post precedente...

Una volta i tacchi da zoccola, e quindi il vestiario intero, li portavano solo le zoccole. Oggi li portano in molte perché vanno di moda, per cui se una donna indossa scarpe da zoccola non è una zoccola a priori. Ciò non toglie che potrebbe anche esserla perché anche la zoccolaggine va di moda, e molte per essere a passo con i tempi si dedicano a questo passatempo, come insegna il mondo dello spettacolo (e della politica). Dalle professoresse alle ministre, dalle psicologhe alle dottoresse, dalle avvocatesse alle commesse, per chi se lo può permettere (fisicamente), e anche per chi non se lo può permettere (orrore) è tutta una corsa a chi si veste più da zoccola, un po' come l'abito di superman che però al contrario dentro sei una 'normale', se normalità significa non essere zoccola. Negli anni Cinquanta e Sessanta solo le attrici e le signore/ine alto-borghesi si potevano permettere di vestire da zoccola senza il rischio di essere additate come zoccole, anche se lo erano. Le donne di umili origini, se osavano tentare di mettersi alla moda e scimmiottare i ranghi superiori, erano immediatamente schedate come 'puttane'; infatti per l'alto costo, gli abiti da zoccola se li potevano permettere solo le ricche di famiglia, le mantenute e le puttane di alto bordo, per l'appunto. Ma è anche vero che ancor prima del Cinquanta era pressoché illogico che una donna povera si vestisse da zoccola per puro piacere libertino, passava piuttosto direttamente agli abiti succinti e miseri delle puttane di strada per necessità. Insomma vestire da zoccola (ed esserlo) era una prerogativa esclusiva delle signore dal tenore di vita elevato. Per fortuna la rivoluzione dei costumi ha piallato questa idiosincrasia di classe, ed oggi, come detto, anche le donne di media e bassa estrazione sociale possono vestirsi da zoccole, come le signore di alto lignaggio da Messalina in poi, senza essere riconosciute come zoccole anche se realmente non lo sono, a differenza di quelle, da Messalina in poi, che tutt'ora lo sono, perché la classe non è acqua e certe tradizioni non si perdono.

giovedì, gennaio 8

Il luogo inatteso (3)


segue dalla (1) (2)

Non è facile riflettersi sulle proprie inquietudini, soprattutto quando sei dinanzi ad una situazione mai affrontata. Eppure non era così, già una volta mi accadde, qualcosa di simile, non una distesa di sabbia ma di mare. Un inizio d’estate, il bambino giocava nell’acqua bassa; distratto da qualcosa che si muoveva sul fondo, lasciò il delfino che leggero come l’aria, di cui era formato, si allontanò lentamente. Io che osservavo la scena comodamente sdraiato, sperai che le onde lo spingessero a riva, ma la corrente del mattino andava al largo, ed il delfino anche. Annoiato da questo fuori programma, dovetti abbandonare la placida sonnolenza, mi alzai pensando che in due bracciate l’avrei raccattato, invece… Era il primo bagno della stagione, redarguii il proprietario del mammifero di gomma che neanche mi degnò, tanto era intento a catturare granchi. Il mare era una tavola plissettata a causa della corrente marina contraria. Mi buttai a testa giù e andai di braccia, quando riemersi il delfino era quasi a portata di mano, ma nell’attimo in cui mi fermai ebbe uno scatto all’indietro e continuò la sua corsa. Continuai, alternando tra stile libero e rana, il delfino si avvicinava e si allontanava perché ero costretto a fermarmi per prender fiato, fuori allenamento; intanto la riva si faceva sempre più lontana, mentre il delfino imperterrito guadagnava decine di metri. Il colore del mare sotto di me aveva acquisito tonalità di un blu intenso, mi girai per vedere quanto mi ero allontanato. Evidentemente la corrente non aveva spinto solo il delfino… la costa era diventata una linea appena percettibile sopra l’orizzonte. Dovevo prendere una decisione, continuare sino a quando la corrente avesse concesso tregua o tornare indietro. Optai per la prima, avrei saputo dopo che la corrente marina non smette mai. Ora io stavo solo nel deserto, con davanti una sconfinata distesa di sabbia e non potevo non ricordare quell’episodio, perché era la stessa causa ad avermi spinto lì. Intorno silenzio assoluto, solo il mio respiro affannoso. Il delfino era a un centinaio di metri. Quel ricordo stava occupando i miei pensieri da ore, si era dilatato per merito di una dimensione temporale, distorta dallo spazio indefinito del deserto. Spesso ero ritornato su quell’episodio, lo avevo sempre interpretato come un desiderio di autodistruzione, era come un’ombra nelle viscere dell’ anima, fino a quel momento… Il deserto mi permetteva di concentrare la mente e mi risultò un’altra visione, un’altra spiegazione. Io non volevo accettare che la casualità del destino dettasse le regole, a costo di giocarci la vita, anche per la più insensata delle decisioni. Ecco cosa era, il mio istinto di rivolta, verso ciò che ritengo sopruso, quando decido di partire metto sul piatto tutto l’estremo che posso offrire, di cui sono capace, altrimenti preferisco il nulla. Il deserto era la mia sfida, e questa volta non il destino sferzante e ingiusto ma direttamente la fonte, l’origine, il nulla stesso. In lontananza un puntino farsi sempre più grande, un pattino, spinto da robuste braccia, scivolava silenzioso sulle acque, nella mia direzione. Mi chiesi in quali faccende fosse affaccendato, così lontano dalla riva, non mi passava per la mente che fosse lì per me. Quando fu vicino , credei utile sfruttare quella che credevo una casuale situazione, agitai il braccio, quel tizio non mi avrebbe rifiutato una mano per recuperare il delfino. Appena si accostò la prima cosa che disse fu se andava tutto bene, che domanda, perché non doveva andar bene, ero solo uno che nuotava. Io volevo semplicemente che mi aiutasse per il delfino. Era il guarda-costa dello stabilimento balneare della spiaggia vicina, ed era venuto in mio soccorso. “Ora recuperiamo anche il delfino”, anche, perché anche? Sarei stato capace di tornarmene da solo. Mi aveva tenuto d’occhio dalla riva con il binocolo, sino a quando aveva ritenuto impossibile che potessi ritornare. Lui aveva ragione, ma per un’altra causa: io non stavo tornando. Così, recuperato il delfino, mi disse che la corrente era molto forte e che non solo non lo avrei mai raggiunto, perché più leggero di me, ma probabilmente non avrei riguadagnato la costa, constatando che la grande distanza mi avrebbe obbligato a qualche sosta, tempo sufficiente per rispedirmi di nuovo al largo. E se avessi provato a tornare indietro senza riuscirci, cosa mi sarebbe accaduto, mi avrebbe colto il panico? Quindi lui era stato il mio salvatore, senza colpo ferire. Andare avanti verso l’ignoto non produce panico, perché gioca la nostra ignoranza; è il tentare di tornare indietro ed accorgersi di non riuscirci che genera stati di angoscia. Non avevo paura, lì nel deserto; eppure lo sapevo che avanti non c’era niente, ma non vedevo oltre i confini dei miei occhi, la distesa non mi terrorizzava, tanto non sarei tornato sui miei passi. Però mi voltai indietro, l’episodio del delfino mi aveva fatto riflettere. Un puntino tra le onde di sabbia farsi sempre più grande…

(continua)