Scrive George Steiner in Language and Silence:
“Il grido della gente assassinata era udibile dalle università, il sadismo scendeva nelle vie uscendo dai teatri e dai musei … Le idee dell’evoluzione culturale e della razionalità intrinseca sostenute dai tempi dell’antica Grecia e ancora intensamente valide nello storicismo di Marx e nell’autoritarismo stoico di Freud (due illustratori tardivi della civiltà greco-romana) non possono più essere propugnate con sicurezza…
Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz… In che modo questa conoscenza pesa sulla speranza che la cultura sia una forza umanizzatrice, che le energie dello spirito siano trasferibili a quelle del comportamento? Non si tratta soltanto del fatto che gli strumenti tradizionali della civiltà – università, arte, libri – non siano riusciti ad opporre una resistenza adeguata alla bestialità politica: spesso essi levarono ad accoglierla, a celebrarla”
Ma c’è una spiegazione a tutto questo. La cultura è un termine che abbraccia un’ampia gamma di espressioni rappresentative delle eredità dell’uomo. Steiner getta il dubbio atroce che la cultura non sia la medicina per guarire dal male ma anzi può convivere con esso. Nello stesso tempo fa bene attenzione a scegliere i nomi degli artisti, le cui opere venivano consumate dai volenterosi carnefici di Hitler. Stiamo parlando di estetica: Goethe, Rilke e la musica classica che può esprimere tutti i significati romantici che vogliamo e ritrovarli anche nella guerra. L’estetica è solo il vestito esteriore dell’arte della verità. Questi pseudoamanti dell’arte sfioravano appena il significato profondo delle cose, si fermavano all’esteriorità. Perché Steiner non nomina Kafka e Schoenberg? Che cultura è una cultura monca? Loro non potevano essere conosciuti, e anche se lo fossero stati non potevano essere compresi. La loro arte era arte nuda, offerta alle anime sensibili che se la cercavano da sé. Questa è la cultura che salva il mondo. Adesso sappiamo che un uomo non può leggere Kafka la sera, suonare Schoenberg, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz come se niente fosse…
C’è arte che produce il piacere dei sensi, arte contemplativa e c’è arte che fa pensare, fa star male, provoca uno squarcio nelle nostre convinzioni e ci apre alla verità. L’una arte offre una sensazione di benessere, attraverso la contemplazione della vita e della natura nei suoi lati pittoreschi e sublimi. L’altra arte mette in gioco noi stessi, obbliga a non barare, è un viaggio interiore, sofferto, un continuo lottare tra l'essere e l'apparire, sentirsi colpevoli di qualcosa e non afferrarne le ragioni, perché la nostra colpevolezza è esistere. Insufflare il dubbio sulle nostre sicurezze e creare dalle ceneri delle false certezze, qualcosa di straordinario, unico, la visibilità delle idee.
Una grande nebbia offusca gli oggetti del nostro pensiero, quando si dirada nulla è come prima; scopriamo un mondo nuovo, intenso, di significati mai esplorati e di sensi mai accesi. L’atto creativo è lì, ciò che va oltre. All’istante c’è il desiderio di comunicarlo. Perché l’arte è prima di tutto comunicazione. L’artista nell’opera d’arte cristallizza il proprio malessere e nella comunicazione lo rende visibile, l’osservatore contribuisce a dargli dei confini. Egli ha un ruolo importante per l’artista, spesso simbiotico per il fatto che lo stesso osservatore riconosce qualcosa che non riusciva a esprimere senza l’apporto dell’artista e l'artista non sempre ha chiare le ragioni del proprio gesto creativo. I malesseri dell’artista sono gli stessi malesseri dell’osservatore solo che in più l’artista ha l’arte di poterli esprimere e l'osservatore ha la razionalità ed il distacco di poterli decifrare. *
* Non ricordo se avevo già postato nel blog questi pensieri, di certo non avevo riportato il pezzo intero di Steiner dal quale erano originati. Di certo almeno due care persone lo avevano già letto... Sta di fatto che erano stati scritti di getto. Qui l'ho variata.
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