sabato, dicembre 22

Regalo di Natale

Dopo Vincent Perez, Eric Clapton, Mick Jagger, Donald Trump, Kevin Costner, Jean-Paul Enthoven padre, Raphael Enthoven figlio...



mercoledì, dicembre 19

Angeli senza ali

Terza ed ultima parte (segue dalla prima e seconda parte)

Fu un viaggio lunghissimo, superò deserti, oceani, tempeste di fuoco, sfiorando il limite del cielo dove non le era consentito andare. Lontano dalle terre emerse, dove ancora nessun uomo era giunto, il continente di ghiaccio.

Nel cuore di questa non-terra, sorta prima di ogni terra, dopo la creazione, c’era quello che nessun uomo poteva immaginare e vedere: il cimitero degli angeli. Milioni di corpi racchiusi nelle montagna irta di ghiaccio, intatti, con dentro l’ultimo soffio divino, il segno di un rito che si ripeteva dalla prima morte di un angelo uomo.

In uno dei tanti anfratti spigolosi, ma non casuale, depose il corpo del suo compagno, gli aprì delicatamente la bocca e gli inalò l’ultimo respiro. La Natura avrebbe provveduto al resto. Gli angeli non erano stati fatti di terra ma di etere e solo il soffio di Dio li accomunava all’uomo. Alla fine della colpa, si sarebbero involati verso il Signore, tutti insieme perché il loro era un unico destino. Un atto di amore sarebbe bastato, un atto di amore era il celato desiderio.

Lei attese un giorno e una notte, immobile, si ricoprì di brina, come una statua di ghiaccio, attese che gli elementi sigillassero il giaciglio mortale. All’uscita del sole freddo, uno spettacolo incredibile, lo sapeva, già c’era stata una volta con il compagno, a portare qualcuno... I raggi entrarono tra le pareti, le crepe, le fessure, le stalattiti, tra le rocce puntute di ghiaccio, trapassarono ogni angolo e con un infinito gioco di riflessi la montagna esplose in un trionfo di luce.
Distese le braccia, quasi a dispiegar le ali che non aveva. Immersa nella luce folgorante, inspirò profondamente chiudendo gli occhi; con un fremito del corpo e agitando la chioma fluente si liberò della brina e per qualche istante fu immersa in una nuvola di gocce accecate dal sole. Tornò il candido sorriso, toccò la tenera lastra di cristallo che si era da poco formata, per un ultimo saluto. Poi si accostò ad un altro sepolcro di ghiaccio, una piccola teca trasparente, anche qui pose la delicata mano; dormiva il suo lungo sonno, serenamente, un candido corpicino alato, il frutto dell’amore. Un’altra storia, un altro piccolo dolore, ma anche un’altra speranza, una futura gioia.

Così era lì, la sua vita il cuore e il destino.


Il giorno prestabilito il ragazzo si fece trovare sulla riva del lago. Sapeva che era molto rischioso perché al villaggio gli avevano riservato una sorveglianza speciale. Si mise a scrutare il cielo dinanzi la montagna, come faceva di solito.
Un tocco lieve alle spalle, lo fece girare di scatto. Perché era sempre la prima volta che la rivedeva? perché era così gioioso da non riuscire a profferire parola?

“Ti sento affannoso!”

“Sto bene, è che sono felice”

“Sei felice? Cosa significa essere felice?”

“Un angelo come può non sapere?”

“Uomini strani: tolgono la vita e poi cercano la felicità. La vostra felicità deve essere diversa dalla nostra”

“La mia felicità sei tu!”

“Io…?”

“Voglio venire con te

“Tu vuoi..? vedi io chi sono?”

“Sei un angelo!”

“La mia è una vita diversa da quella di voi umani. Dovresti rinunciare a tante cose. Voi uomini avete l’amore del Signore e sembra che non sappiate cosa farvene, non potete immaginare quanto Lui vi ami. Ed anche noi angeli vi amiamo, è tanto grande il nostro desiderio che vedendo voi vediamo Lui. Oh Padre, perché fosti così crudele con noi? Torna dalla tua gente, hanno ragione. Io sono un’anima dannata!”

“No, tu sei un angelo. Qualsiasi punizione Dio vi abbia inferto, non vi ha mai separato dalla vostra natura divina. Noi uomini non possiamo volare”

“Non è così. Voi uomini, ignari… alcune volte dimenticate che Lui vi ha creato, non vi rendete conto di quali essenze siete fatti. Uomini… uomini…”

“Cosa vuoi dire?”

“La terra è la vostra casa solo perché non avete le ali?”

“L’aria è degli uccelli e degli angeli”

“Gli uccelli hanno le ali. Ma io non ho le ali. Vorrà significare qualcosa?!”

“Tu voli leggera nel vento… anche se hai perso le ali”

“Il desiderio dell’Amore mi fa sollevare nell’aria. Io tendo verso il mio Amore”.

“Ma.. anche io amo…”

“Ami il Signore quanto lo amo io?”

“Veramente non saprei… io sono sicuro di amare te”

“Me? Un uomo che ama angelo del peccato originale?

“Ti amo, non è strano. Se ti amo è possibile. Io amo perché non ho visto in te il peccato”

“Mi ameresti a tal punto da lasciare gli uomini?”

“Sto qui per questo”

L’angelo si commosse. Gli occhi scintillarono di lacrime gioiose.

“Perché?”

“Dio, Padre nostro… grazie “

Il pastore sorrise e ripeté: “Perché?”

L’angelo si riprese. “Mi ha perdonata… Lui, sì… mi ha perdonata”

Il ragazzo scuoteva il capo in cerca di spiegazioni.

“Se ha permesso alla sua creatura più amata di innamorarsi di un angelo, vuol dire che mi ha liberata dalla colpa”

“Ma ciò è meraviglioso. Ciò è… cosa significa?”

“Significa che ora posso tornare a Lui, io posso tornare “

“Oh Dio mio! Se tu torni a Lui ti perderò, non potrei sopportarlo, no…“

“Vuoi venire con me? Per seguirmi devi imparare a volare. Tu puoi”

“Io posso volare?”

“Vieni, dammi la mano”, lo tirò nell’acqua bassa.

“Ora correrai insieme a me, avanti”

Ci furono diversi tentativi, il ragazzo nel momento dello stacco cadeva goffamente in acqua

“Non ci riesco, è impossibile!”

L’angelo lo guardò sconsolata: “Allora io vado”, disse con una luce negli occhi.

Il ragazzo si rialzò: “Tu non andrai da nessuna parte senza di me, continuiamo”

Lo prese ancora per mano.
Un grido di attacco dalla foresta, i cacciatori con le lance alzate uscirono allo scoperto e lo stregone in persona con il braccio puntato verso di loro.

“Ora, è il momento! corri veloce, corri”

Il ragazzo si mise a correre, ma non si alzava, “non ce la faccio, vai tu, salvati”.

“Corri! Hai amore?”

“Sì, Dio, sì…”

“Lo senti l’amore che ti solleva?”

“Sì, sì ho amore, ho amore, oh Signore…”

Lance e frecce sibilavano su di loro.

“Io amo… non ci riesco…”

“Guarda i piedi!”

Il ragazzo stava sfiorando la superficie delle acqua profonde senza affondare.

“Sto volando… io sto volando…”, in quell’attimo una freccia lo colpì dalla spalla trapassandogli il cuore. Il ragazzo spalancò gli occhi.
L’angelo lo tirò più su, lui ora volava. Insieme salirono più in alto del cielo, più in alto delle stelle, verso l’Amore agognato.

martedì, dicembre 18

La Divina





Volevo postare gli angeli, posto la Divina, cogliendo l’umore odierno della combriccola. Sempre di venerazione si tratta.

Esiste sì, con leggerezza, su una dolce collina, ama essere riverita e ammirata. Infatti, il ridente paesino ai suoi piedi non può che chiamarsi “Colle amato”.

Regina del piccolo Regno del Bosco di Sopra, terra di castelli, di fate, di trifole e di lupi voraci, facciamo un inchino a Farfy la Divina.

domenica, dicembre 16

lunedì, dicembre 10

Moïse (Alfred de Vigny, 1822)

Moïse (Alfred de Vigny, 1822)


Il disait au Seigneur : « Ne finirai-je pas ?

Où voulez-vous encor que je porte mes pas ?

Je vivrai donc toujours puissant et solitaire ?

Laissez-moi m’endormir du sommeil de la terre ! »


sabato, dicembre 8

Luttazzi cacciato da La Sette

Il video incriminato, va già meglio.

Tuttetette


Farfy mi aveva regalato un biglietto circolare per i night club. Con mio grande disappunto mi sono accorto che non esistono più, sono scomparsi all’inizio degli anni 60. Dunque ho ripiegato nei soliti pub, che ormai mi hanno alquanto sfrantumato i cocomeros, per la noiosa presenza delle solite facce di catzo del venerdì notte, fricchettoni montati e baldracche tirate in cerca di polli da spennare.

I night club erano localini alquanto chic dove si andava per lo più per assistere a qualche spettacolino di spogliarello, l’aspetto elegante dava una sensazione di perbenismo che agevolava l’ingresso ai finti moralisti, magari in compagnia delle mogli, finte moraliste anche loro.
Per non venir meno all’omaggio di Farfy, appigliandomi al fatto che lei ha detto che su questo blog faccio troppa cultura e non avendo capito a quale cul… tura si riferisca, questa volta allora tralascio la cul… tura e scriverò di tette.
Potrei iniziare con: dimmi che tette hai e ti dirò chi sei. Ma non voglio fare un test, sarebbe troppo semplice dire che una donna con le tette flosce è triste, non è vero, al limite si potrebbe scrutare il carattere dalle forme.
La moda delle tette grosse è stata trasferita in Italia dai soliti Americani, negli anni Cinquanta. Si sa, quello è un popolo di bambinoni, legati al latte materno. In precedenza agli Italiani il volume delle tette non diceva molto, o quasi. Nella cultura Occidentale antica il seno era collegato alla procreazione. Non si considerava la grandezza ma il numero, più tette c’erano (Artemide efesina) più figli si potevano allattare. La lupa capitolina è simbolo di fertilità, perché riesce ad allattare i due bimbi grazie alle sue molteplici mammelle. Poca importanza era riservata alla grossezza, difatti nella figurativa antica (Afrodite al bagno greca, Dea dei Serpenti minoica, Isthar dea dell'amore e fecondità assiro-babilonese) non esistono immagini femminili con seni prosperosi, Diana la dea della caccia era addirittura senza una tetta. Invece nella penisola indiana in genere i grandi templi hanno le pareti decorate con bassorilievi di donne tettute, ma anche scene erotiche perché le religioni orientali sono pervase di quella sensualità che in Occidente si perse con l’avvento del Cristianesimo. In Giappone, per gli stilemi della la bellezza classica giapponese, ancora non inquinata dal modernismo occidentale, si consideravano volgari le labbra grosse e si preferivano le tette piccole virginali.
Tornando in Italia, all’epoca delle maggiorate, l’ unica vera tettona tra le nostre attrici fu Sofia Loren, per questo è ancora amata nei USA. Le sue tette competevano con quelle dell’americana Jayne Mansfield, la sfortunata vamp dal tragico destino. La Mansfield non aveva un seno eccezionale, riusciva con artifizi, a farlo sembrare più grosso, lo stesso faceva la Monroe.
Poi vennero gli anni 60 e 70, il femminismo e le taglia grissino. Solo Fellini manteneva la barra dritta verso i suoi sogni. In ‘Casanova’ andò a ripescare un’anziana pin up americana, dalle tette mostruose, solo lui se lo poteva permettere, in nome della cultura, la cultura di Farfy.
Negli anni Ottanta le cose cambiano, tornano prepotentemente i gusti americani. Una cantante country, Dolly Parton, già coniglietta di Play Boy, è bionda cotonata, occhi azzurri e soprattutto tettona, tutte le caratteristiche per diventare un’icona americana, tanto da essere immortalata da Andy Warhol. In Italia ce ne saremmo anche stati tranquilli se un certo individuo, con la fissa delle tettone, non si mette in testa che per lavorare nelle sue tv private le donne devono avere almeno una quarta. “Drive in” è l’apoteosi delle tettonate, salgono sugli altari Carmen Russo e Sabrina Salerno, persino Lory Del Santo si tira su quel poco che ha per lavorarci. Le donne dello spettacolo, per non venir tagliate fuori, per colpa di ‘sto nano, corrono in massa dai chirurghi plastici, prassi ormai corrente che segue il motivetto: "Ma ando' vai se le tette nun ce l'hai!". Un’altra americana, Wendy Windham, sbarca in Italia col vento in poppa, non sa fare niente, solo ridere, ma ha una sesta misura e può bastare, con lei la tv italiana tocca il fondo del nulla assoluto (a parte la De Filippi). Il regista Tinto Brass, fa una parentesi dalla sua parte preferito, e lancia due attrici, a tuttatetta, Debora Caprioglio e Serena Grandi. All’arrivo della Grandi non ce n’è più per nessuna; Carmen Russo chiude il siparietto e punta alla danza turca. L’ultima stella tettonata naturale del cinema italiano è Sabrina Ferilli, ma decisamente non le stanno in piedi.
Ritornando in USA un’attrice latino-americana Salma Hayek, dichiara che la crescita delle sue tette è il risultato di una preghiera, forse anche il matrimonio con un multi-sfondato-miliardario è frutto di un rosario. Se Salma dice il vero, allora Norma Stitz: the world's largest breasts and the Guinness Book of World Records, avrà fatto dire messa in convento ogni giorno da un esercito di suore,
l’ immagine è eloquente.

lunedì, dicembre 3

Ofidius

Ed eccomi a .ozzana, un paesetto a 630 metri di altitudine. Ho preso alloggio da un affittacamere, un palazzotto ridipinto molto deprimente, ma è quello che volevo. Tutto intorno è un mortorio, anche le auto disertano, ultimo baluardo della civiltà, questo luogo. È utile per meditare, se ci fosse da meditare, ma non c’è nulla che dia ispirazione. Gli abitanti sono avanti con gli anni, chiusi nelle loro case o al lavoro. La spesa la fanno in una località vicina. Sono poche dimore raggruppate lungo una strada con intorno montagne brulle. Il primo giorno lo superai agevolmente, la curiosità era ancora accesa, ma il giorno dopo, verso il pomeriggio, mi colse un senso di soffocamento. Il paese era tutto lì. A quel punto per non morire di noia dovetti intrattenere relazioni con i locali.
Incominciai con il mio locandiere, il signor Rizzi una persona affabile che gestiva la sua famiglia come le sue camere. Aveva due figlie che frequentavano il liceo a 30 Km da casa e un maschio carabiniere in Toscana. Abitavano al piano terra, un lussuoso nido imbottito di legno, accogliente e caldo. Era bassa stagione e si poteva dire che ero l’unico della pensione, a parte qualche giornaliero. Non avevo preventivato quanto rimanere e il signor Rizzi si prodigò a rendermi il soggiorno interessante, le sere successive non mancò di invitarmi a prendere il tè. Così potei conoscere la sua famiglia, le sue amicizie e parentele. Cercava di indirizzarmi nelle suggestive località dei dintorni di .ozzana. Ma erano sempre di altri centri abitati. Per un raggio di 30 Km .ozzana era il deserto e nemmeno gli sforzi mnemonici del signor Rizzi potevano cambiare questo stato di fatto. Una settimana trascorsa sballottato come una pallina da ping pong tra una località e l’altra. La domenica, sceso alla buon’ora trovai il signor Rizzi pronto a darmi un nuovo suggerimento. “Perché non viene alla sorgente della Fuca?”. Pensai, prevenuto, a qualche posto remoto. “No, grazie. Oggi preferisco riposarmi”. “Ma è vicino…”. Lo guardai interrogativo, sapevo cosa significava ‘vicino’. “Un quarto d’ora di auto”, continuò con voce sommessa. Mi sedetti al tavolino d’ingresso. “E cosa è questa sorgente?”, già immaginavo un rivolo insignificante. “Non è proprio la sorgente ma un’abitazione che sorge nei pressi. Ê di un mio vecchio amico. Oggi vado a prendere alcuni prodotti che fa lui. Sembra che sia tutto fermo all’ ‘800. Vedrebbe la casa antica con la stalla e come si fa il formaggio con i vecchi metodi”. Guardavo il pavimento in cotto, era la prima volta che lo notavo, aveva intrusioni vitree molto interessanti.

“Allora viene?”.

Mi girai intorno. I miei occhi si spinsero sulla strada, oltre le viuzze laterali che, sapevo, sbucavano nel nulla.

“Va bene!”, perentorio.

“Allora, tra mezz’ora. Aspetto l’ arrivo di mia moglie e andiamo”.

(……………)

Maudette prese la brocca e gettò dell’acqua nella bacinella. Si lavò il viso, poi si alzò le larghe maniche della veste bianca, si voltò verso Ofidius e gli indicò l’uscita.
Ofidius si ritrovò al margine di una distesa di erba alta, sotto una luna avara. La casa in cui abitava Maudette era di pietra scheggiata e mattoni secchi, col tetto di ardesia; il suo volume, netto e chiaro, doveva apparire da lontano come un biancheggiante fantasma, unico frequentatore di quei luoghi. Ofidius non poteva fare a meno di scrutare la fitta vegetazione, aveva la sensazione che qualcosa stesse lì nascosta a spiarlo. L’impossibilità di penetrare con lo sguardo l’intricata matassa non lo faceva star tranquillo. Sicché ad ogni minimo rumore scattava in allarme. Si portò all’uscio e chiese a Maudette di entrare. “Solo un momento…ecco, ora puoi entrare”. Nel rivederla, dopo solo pochi minuti si sentì rassicurato, le parve ancora più bella, e percepì in un istante che la sua inquietudine esterna non era stata causata dalle alte ombre della vegetazione. Non riusciva a toglierle lo sguardo, camuffava la sua fissità con un apparente disinteresse ed ogni volta che lei lo incrociava, deviava la vista verso angoli insignificanti della grande stanza. Maudette era una ragazza dalla pelle bianca e rosata, cresciuta in quelle vallate dall’aria pulita e rarefatta. Si portò le braccia dietro la nuca per tirarsi e stringersi con un laccetto i folti capelli biondi. Sapeva che Ofidius la fissava e le scappò da ridere. Naturalmente questo destò la curiosità di lui.

“Che c’è?”

“No, niente stavo pensando a una cosa…”

Ofidius prese lo spunto per rompere il silenzio.

“A che cosa?”

Maudette, con quel sorriso malizioso, tipico delle donne che già sanno le risposte degli uomini:

“Perché mi guardi?”

Ofidius si sentì spiazzato ma subito si riprese e decise di contrattaccare nonostante gli occhi della ragazza su di lui lo imbarazzassero un poco:

“Perché sei bella!”

Maudette ebbe una vampata di rossore che cercò di nascondere chinando il corpo. Ritenne opportuno tagliare il dialogo:

“Si è fatto tardi…, domani devo alzarmi alla buon’ora”

“Cosa farai domani?”

“Scendo giù in paese, a portare i formaggi”

“Ma non è una cosa che fa tuo zio?

“Si, ma ora non c’è ed allora gli do una mano”

“Ti accompagno?”

Maudette accennò un movimento col capo, non voleva essere una risposta ma solo il segno che aveva recepito la domanda. Si diresse verso la sua camera.

Sicché all’alba, quando il sole era ancora sotto i monti, Maudette si allontanò col carretto e l’asino Michele, lasciando Ofidius beatamente dormiente tra i morbidi guanciali di lino.
Quando i tiepidi raggi forando l’oblò lambirono le lenzuola, allora si rese conto che il tempo era passato. Si alzò velocemente e chiamando Maudette si incominciò a vestire velocemente. Scese le scale di corsa e superato il salone con due balzi si ritrovò in cucina. Maudette era intenta a preparare il caffé.

“Buongiorno! Bella dormita, eh?”

“Non dovevi scendere in paese?”

“Già fatto…vi siete presentati?”

“Cosa?”

“Ora vi porto il caffé”

Rientrando nel salone fu scosso da una voce squillante che lo salutava. Era un giovanotto, seduto sul largo parapetto della finestra, di cui prima non si era accorto. Ofidius gli si avvicinò porgendogli la mano. Non era molto contento di quella presenza. Nel silenzio che seguì fece mille pensieri. Quando la ragazza entrò si rese conto che i due non avevano socializzato.

“Bene, bene…allora Ofidius come hai dormito?”, Maudette avvicinò il vassoio con le tazzine.

“Beatamente, però potevi svegliarmi!”, Ofidius guardava il modo di porgere il caffé ad Arthur, cercando un segno di intesa tra i due, una civetteria, un sorriso complice.

Maudette incominciò a parlare con Ofidius sembrando non interessarsi alla presenza di Arthur. Questa cosa però non piaceva ad Ofidius, infatti pensava che se lei non dedicava al giovane alcuna attenzione era perché tra i due c’era già una certa confidenza. Trasformò il pensiero direttamente in parole: “Maudette, ancora non mi hai detto il motivo della visita del tuo caro amico”. La ragazza lo guardò un po’ confusa.

“Ma chi, Arthur?!”. Il giovane si mise a ridere. “È il figlio dello spaccista, è venuto a prendere i formaggi”.

Dopo quella risposta Ofidius sembrò acquietarsi. Ma aveva marcato con un certo tono quel ‘caro’ e stizzito con se stesso per aver scoperto così ingenuamente le proprie carte, in presenza di quell’Arthur, si relegò dinanzi la porta aperta , deciso a starsene da parte. Quando si voltò, non c’erano più. Maudette aveva accompagnato Arthur al carro, passando dalla cucina. Ofidius si spostò alla finestra per osservarli. Si salutarono sfiorandosi le guance; questo gli provocò uno stato di agitazione.

Gli saltò alla mente la capacità di collezionare rinunce, l’immarcescibile vizio di non approfittare delle occasioni, anche quando gli cadevano sulle mani. Capitava che una serie di circostanze si concatenavano a suo favore, come se un disegno divino volesse fargli un dono, ma lui aveva la dote naturale di immettersi nell’unico spiraglio sterile delle possibilità, scartare la fortuna per continuare a sferragliare sul binario morto della sua esistenza.

giovedì, novembre 29

Campagne di altre terre

Negli USA ci vanno pesante

martedì, novembre 27

Gli angeli senza ali

seconda parte (segue dalla prima parte)

Era ancora notte quando il giovane si alzò dal giaciglio, prese qualcosa da mangiare e furtivamente si allontanò dal villaggio. La madre lo vide.
Corse per i boschi, si inerpicò sulle brulle rocce, andando incontro al sole nascente. E finalmente arrivò al lago, stremato, proprio quando il sole, esplodendo da dietro la montagna ghiacciata, incendiava lo specchio d’acqua. Il ragazzo gridò: “sono tornato!” Era da parecchio che mancava ma loro non tardarono a venire. Sembravano due grandi rondini bianche che scendevano dalle cime innevate e mostrarono la loro felicità trillando proprio come rondini d’estate. E veloci come rondini precipitarono verso il loro amico. Ma a pochi metri dal suolo, si fermarono, sospesi. “Che c’è, non mi riconoscete?” La loro espressione divenne cupa. Si guardarono intorno, annusarono l’aria. Il ragazzo parve intuire, si girò, ebbe solo il tempo di vedere il fogliame muoversi e gridare: “Scappate!” In un istante una moltitudine di frecce e lance fu scagliata contro i due angeli. L’angelo uomo venne colpito ad un braccio e rallentò il volo. La sua compagna si fermò e tornò ad aiutarlo. I cacciatori usciti allo scoperto, si portarono sulla riva continuando a tirare. Il ragazzo si avventò contro di loro provando a fermarli con tutte le forze, inutilmente. L’angelo donna volò con le braccia tese per afferrarlo. Ma a pochi metri dal prenderlo una lancia si conficcò dritta nel petto del maschio. Questo rivolse lo sguardo verso la femmina sorridendo, quello era un saluto, un accomiatarsi, un addio per significare la felicità del ritorno al grembo del Padre. Era sempre così che accadeva agli angeli morenti. Non così per i vivi. L’angelo donna emise un urlo che non aveva nulla di umano, simile a quello di un'aquila, così stridente e potente che l'acqua vibrò, la terra tremò, l'aria si fermò sulle teste dei cacciatori. Anch’essi si immobilizzarono, il sangue nelle loro vene gelò. L’angelo maschio, con la lancia piantata, precipitò lentamente a vite. I cacciatori ripresisi dallo spavento, si affrettarono a recuperare il corpo sull’acqua. La donna, furiosa picchiò giù, per prendersi il compagno. I cacciatori presero l’angelo caduto, cercando di tenere a bada lei con le lance puntate. L’angelo femmina, schivando i colpi, piombò a più riprese su di loro, come un falco impazzito. I cacciatori da terra non lanciarono le frecce per non colpire gli altri. La strenua lotta per contendersi il corpo si concluse con una vorticosa corsa verso le sponde del lago e un fitto lancio di dardi che costrinsero l’angelo a salire più su. Il ragazzo, che si era battuto fino allo stremo, fu legato. I cacciatori appesero l’angelo su un bastone, come una preda, mentre la femmina dall’alto, controllata dagli arcieri, guardava impotente. Così, per tutto il viaggio di ritorno.
“La bestia infame, vedete! Sta lì che ci guarda, ci segue, ci spia, maledetta!”

Giunti al villaggio, sparì alla vista. La buona caccia fu salutata da tutti con esultanza; la madre del ragazzo gli andò incontro a braccia aperte ma lui la schivò. Lo stregone decretò la festa che si sarebbe conclusa il giorno successivo con la messa al rogo dell’angelo morto, come si conveniva a tutti gli esseri dannati. Fu preparata la pira ed il corpo adagiato dinanzi, per il giorno successivo, nel frattempo venne dato inizio alle danze, canti e gozzoviglie, che testimoniavano la gioia della liberazione dai demoni.
Fu una notte di grida selvagge e balli sfrenati. Il padre del ragazzo entrò nella capanna invitando il figlio a festeggiare con loro: “ È finito un incubo, dovresti essere riconoscente al villaggio. Vieni a festeggiare con i tuoi amici e i tuoi fratelli”. “Oh poveri voi! Non capite quello che avete fatto. Un’anima innocente è stata sacrificata per la vostra ignoranza, la vostra codardia. Io non ho più nulla a che fare con questa gente. Non ho più amici, non ho più fratelli… ed ho preso una decisione… domani abbandonerò il villaggio”. “Non sai che dici, tua madre ne morirebbe”. “No, è riuscita a passare sul mio dolore senza un dubbio, sopravvivrà, come te del resto”. “Domani la penserai diversamente… ed ora… se non vuoi godere di questa festa, che il sonno ti schiarisca le idee”.
La baldoria si protrasse sino a tarda notte, poi gli abitanti del villaggio, spossati dalla stanchezza caddero in un sonno profondo. Solo lui non dormiva. Uscì dalla capanna, si diresse alla pira ai cui piedi era stato posto il corpo dell’angelo; nei pressi c’erano i due guardiani, accasciati anch’essi dal sonno. Si avvicinò ai pietosi resti,. “Mi dispiace. È tutta colpa mia… se non fossi tornato, non vi avrebbero teso questa vile imboscata… ora cosa posso fare?”. Rimase qualche minuto in silenzio, sentì distintamente una goccia cadere sulla sterpaglia della pira. Alzò la testa, il cielo era terso, la Luna pallida a metà rischiarava la notte e non c’era un alito di vento. Ancora un’altra goccia. Aguzzò la vista, in alto, molto in alto scorse un tenue bagliore, riflesso della Luna. “Sei tu!”, mormorò, era lei e quelle gocce erano le sue lacrime; non si era mai allontanata dal suo compagno. Scivolò giù silenziosa, come una foglia, fissò intensamente il ragazzo, gli sorrise, anche lui piangeva. Lo accarezzò sfiorandogli le lacrime: “Non appartiene agli uomini, lo porto con me”. Il ragazzo annuì, l’angelo si avvinghiò al corpo del compagno e prima di spiccare il volo diede un ultimo sguardo al ragazzo. Lui non si trattenne: “Posso venire con te?” “Dove ora andrò non è dato sapere agli uomini…” In quel momento un guardiano gridò l’allarme. “Vai, vai…“. L’angelo si soffermò ancora sui suoi occhi tristi, incurante dell’accorrere dei cacciatori. “Scappa, presto…”. La donna si alzò lentamente: “Il quarto plenilunio, al lago”, e spiccò il volo.

(la terza parte in giornata)

lunedì, novembre 26

Gli occhi di prosciutto stantìo

Da RAINEWS 24:

Pur senza mai pronunciare i nomi di Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini, Berlusconi ha sferrato un' altra stoccata agli (ex) alleati: "D'altronde - ha detto il leader di Forza Italia - come possiamo andare avanti con questi alleati che ci hanno fatto perdere le elezioni del 1996 e ci hanno condizionato mentre eravamo al governo?".

Pronta la replica di Lorenzo Cesa (Udc): "Berlusconi faccia uno sforzo di umiltà. Ciascuno di noi puo' aver commesso errori, ma le principali responsabilità sono sue - dice a 'Domenica in' - Troppo spesso ha anteposto i propri interessi privati a quelli generali del Paese".
E finalmente! Ci hanno messo un po' di tempo ma alla fine lo hanno dovuto sputare 'sto rospo. Però nessun merito, il merito è sempre di Egli, perché se non dava questa accelerata indipendentista, gli alleati avrebbero continuato a tenere per loro la verità su di Lui, anche se evidente come una casa, per gestire un peso politico. Del resto tutto si ripete, anche Bossi, dopo l'alleanza ne disse di cotte e di crude, poi ritornò alla cuccia. Speriamo che non accada la stessa cosa. Sarebbe veramente deprimente e miserevole.
Cesa è stato proprio ingenuamente sincero, perché lui è uno ruspante, che parla prima di soppesare gli effetti delle sue dichiarazioni, come fece con Mele; Fini non ci sarebbe cascato, è furbo lui. Ma Cesa ha detto il Vero. Ed ora offre il fianco a domande 'retoriche' del tipo: Se seguivate la linea politica di uno che si faceva gli interessi personali, Voi alleati di CHI facevate gli interessi?
Come direbbe uno, questa è la POLITICA, amico.

sabato, novembre 24

Il cerchiobottista italico


Di Vespa ce ne è uno solo, anzi no, due, l'altro lavora per Panorama, guarda caso.
Riporto l'incipit dell'articolo che l'equilibrista italico ha scritto venerdì, nella sua rubrichetta "Visto da vicino" su Il Mattino: "Forse ha ragione il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri quando dice che la nuova guerra contro Silvio Berlusconi è soltanto all'inizio. O forse no".

O forse no???
Ma che ha fatto, corsi di aggiornamento da Aldo, Giovanni e Giacomo??

Camaleontico, sta già incominciando ad usare il linguaggio veltroniano
per conservare il posto al sole. E grazie, per lui è facile, con la tecnica giornalistica nota come 'ma anche sì, ma anche no', ci ha fatto una carriera.

giovedì, novembre 22

lunedì, novembre 19

In verbo veritas

Sette milioni di italiani hanno firmato una sottoscrizione per mandare a casa il governo Prodi e con il silenzio-assenso, far salire il nostro Silvio, che Dio lo protegga. In Piazza San Babila, il Nostro, ha avuto una folgorazione, un messaggio divino che ha subito divulgato davanti la folla osannante, il nuovo partito del popoli italiano della libertà, sette milioni di firme lo attestano! Che Dio gliene renda merito, che lo abbia in Gloria. Una personcina così merita veramente di essere premiata con il più grande dono al quale un vero cattolico come Lui può aspirare, diventare Santo, come giusto premio per tutto il bene che ha elargito a piene mani sulla Terra, la generosità, lo spogliarsi dei suoi averi materiali per dedicarsi al prossimo suo italiano come se stesso. Grazie, grazie, grazie il popolo italiano te ne rende merito: Santo Subito!


Sono mesi che l’Innominato preparava questa boutade. L’idea incominciò a balenare durante le votazioni per il nuovo PD; i cervelli della festosa macchina di propaganda di FI, si sono messi a tavolino ed hanno escogitato questa trovata. Prima organizziamo una raccolta di firme, per una cosa qualsiasi, tipo: siete insoddisfatti di questo governo? Risposta scontata. Gazebo distribuiti in tutti i capoluoghi di regione, come per un referendum, come per una elezione; poi dopo aver accumulato un discreto numero di sottoscrizioni, si fa chiudere a Milano dall’Innominato, sommerso da una folla di curiosi, e annuncia a ‘sorpresa’ la nascita del nuovo partito del popolo; così fanno sembrare che i milioni di firmatari, per la legge di causa ed effetto, abbiano sottoscritto anche e soprattutto per questo nuovo soggetto politico. E nell’opinione pubblica, quella di bocca buona, quella che si guarda i programmi fetecchia delle reti M., quella che ancora crede da 15 anni di diventare ricca come Lui, si insinuerà la convinzione che questo nuovo partito sia stato voluto direttamente dagli Italiani, per acclamazione diretta. Geniale.

Santo Subito! Ma subito, eh?!

domenica, novembre 18

Dimentichiamo

Noi dimentichiamo le nostre lotte, le nostre guerre, le nostre battaglie. O forse non erano così importanti per essere ricordate.

martedì, novembre 13

Gli angeli senza ali


Tanti anni fa esistevano degli uomini che sapevano volare, angeli decaduti.
Dopo la creazione non avevano ritrovato la via dei cieli perché, attardati a contemplare la meraviglia del creato, erano stati colti da un malcelato desiderio di godere dei frutti destinati all’uomo, figlio prediletto. Per punirli il Signore precluse loro l’accesso al Paradiso, non li sprofondò negli Inferi come aveva fatto con Lucifero perché non erano ribelli, si limitò a privarli delle ali ma lasciò il dono di volare, così gli uomini li avrebbero considerati diversi, cacciati e perseguitati per timore del loro potere soprannaturale, temuti e uccisi. Questo era il destino deciso dal Signore, sino a quando non sarebbero tornati a Lui.
Gli angeli senza ali si andarono a rifugiare sulle più alte vette della Terra, nelle nevi perenni, nei ghiacciai inaccessibili per fuggire l’uomo e fu loro concesso il dolore e il piacere terreno, ebbero la capacità di procreare e quindi di morire.
Le molte spedizioni dei cacciatori, il continuo espandersi dell’uomo ne ridusse la popolazione e, senza alcuna colpa, gli angeli si ritrovarono a contatto con gli uomini perché non ebbero più luoghi dove procurarsi il cibo che non fosse stato raggiunto.
Gli angeli non conoscevano l’odio, sentimento che solo l’uomo possiede perché già insito alla sua origine, la loro era una vita semplice e leggera, dedita alla contemplazione della Natura e all’amore verso le sue creature.
Accadde un giorno che un giovane pastore, spintosi in perlustrazione in una verde vallata, mai raggiunta prima, per far abbeverare il gregge nel grande lago lì presente, scorse una coppia di angeli, uomo e donna, che volavano nudi a pelo d’acqua; volteggiavano e salivano per poi scendere insieme in picchiata e tuffarsi, ne uscivano con pesci che si offrivano a vicenda. Il ragazzo rimase rapito da quello spettacolo ma nello stesso tempo era terrorizzato, perché sapeva come gli avevano detto nel villaggio che quelle creature erano pericolose, demoni che si cibavano di carne umana. Nascosto nel folto sottobosco, non si avvide che un agnello aveva sopravanzato il gregge per seguirlo. Il suo belare attirò l’attenzione dei due angeli. Si fermarono in aria e si girarono verso i cespugli. Il pastore fu colto dal panico, afferrò l’agnello e restò immobilizzato dalla paura. Gli angeli scesero fluttuando e si avvicinarono al bosco. L’agnello vedendoli svincolò dalle braccia del pastore e andò loro incontro trotterellando. Gli angeli lo accolsero con un largo sorriso e incominciarono a coccolarlo con mille carezze e baci. Il ragazzo approfittando della loro distrazione provò a fuggire, ma il rumore dei rami secchi lo tradì. Gli angeli allarmati, all’istante si librarono in alto e lo videro. Gli occhi scrutarono nel profondo della sua essenza e capirono di trovarsi a cospetto di un’ anima buona.
Ridiscesero e gli girarono intorno incuriositi. Si accostarono, lo toccarono, il ragazzo si scostò tremante. Gli angeli si guardarono in faccia e con un segno d’intesa il maschio volò verso il lago. Lei si mise ad accarezzarlo dolcemente con un soave sorriso. Era di una bellezza non umana, la pelle bianchissima, ma più della bellezza lo straordinario sguardo, il giovane ne rimase quasi ipnotizzato, infondeva serenità e amore, dolcezza e desiderio. Qualcosa che il ragazzo non aveva mai sentito prima, provò anche lui ad accarezzarla. In quel momento l’angelo uomo tornò. Il ragazzo si ritrasse imbarazzato. L’angelo rise e gli porse dei pesciolini appena catturati. Il giovane allargò le braccia, stupito, ma ebbe chiara la folgorazione della verità. Le creature in sembianza d’uomo con il dono del volo, non erano quelle belve feroci che avevano affollato i racconti della sua infanzia. Non erano i demoni, non erano i mostri descritti dallo stregone capo del villaggio.
Passò tutto il giorno in loro compagnia, a giocare, pescare ed anche provare a volare. I due angeli si fecero capire a gesti. Solo dopo essersi accomiatato, il pastore allontanandosi sentì lei gridargli: “tornerai?” Gli angeli erano sostanza di Dio e conoscevano i linguaggi degli uomini ma non era consentito usarli senza il permesso del Padre; agli angeli senza ali, era concesso.
Lui ritornò e tornò ancora e ancora e ancora.

La madre notò dei cambiamenti. La sua mansione di pastore gli stava prendendo tutto il tempo che gli altri dedicavano alla caccia e alle funzioni sacre. All’ennesimo rientro a notte fonda gliene chiese la ragione. Il giovane conosceva la madre, molto legata alle usanze del villaggio e molto superstiziosa. Le diede un bacio sui capelli, cosa che non aveva mai fatto: “Ecco mamma, è notte. Vai a dormire, domani ne parliamo”. Ma all’alba era già partito. La madre ne discusse con il padre, tutto dedito alle funzioni di custode del sacro fuoco.
Quella sera però il ragazzo non tornò, si era lasciato prendere talmente dall’entusiasmo che non si rese conto che la notte era sopraggiunta, era pericoloso muoversi nel buio della foresta. Gli angeli lo portarono nel loro giaciglio, una grotta nascosta sulla cima del monte che sovrastava il lago. Lì dormì. Il mattino seguente al ritorno sul lago trovò i resti straziati di 10 pecore, si inginocchiò a dolersi e meditare. L’angelo gli chiese il perché. “Non vedi? I lupi hanno assalito le pecore”.
“È la Natura. Ogni creatura vive e sopravvive, dando e togliendo la vita”. “Ma ora che tornerò, subirò una lavata di testa perché non ho saputo difendere il gregge”. “E come potevi fare, da solo?” “Io da solo no . Queste non sono le terre dei nostri pascoli, lì i cacciatori stanno in vedetta. Io non dovevo stare qui”.
Ritornato al villaggio la madre lo rimproverò per la sua assenza: “madre, perché vuoi sapere ciò che non ho da nascondere? Mi sono attardato e ho passato la notte in un rifugio”. “Figlio, ma perché ti sei allontanato così tanto?”. “Non preoccuparti, domani non mi allontanerò”. Infatti aveva deciso che per qualche giorno non sarebbe tornato al lago.

“Dieci pecore, dieci… e una ragione c’è. Tu non eri dove dovevi stare”, il padre non aveva dato molta importanza all’assenza del figlio ma questa volta, un fatto materiale contava più di ogni cosa. Se ne andò infuriato, il ragazzo era molto rattristato perché sapeva che per il villaggio ciò che aveva fatto era un errore grave. La madre cercò di rincuorarlo: “Tu sei stato sempre un buon custode del gregge, lasciamo stare che non vuoi andare a caccia. Qualcosa c’è che ti ha fatto errare. Dove sei andato?” Il figlio, preso dallo sconforto, per far capire alla madre che in fondo la ragione del suo sbaglio era insista in qualcosa di molto più grande di loro, raccontò dell’ incontro con gli angeli, della loro natura benigna, della bellezza della loro anima. “No! Mi metti paura, quelli sono demoni, oh figlio, potevano divorarti, no, no, non devi più… sei salvo per miracolo, no…”
“Mamma, la verità la sai qual è? Tutte le leggende che si dicono su queste creature, nulla è vero. Lo stregone non sa niente”.
“Blasfemo! Lo stregone è il tramite, lui sa tutti i segreti della terra e del cielo. Promettimi che non andrai più da quegli esseri, prometti!” Il ragazzo restò muto. “Figlio, la maledizione può cadere su di te, il male ti può assalire…”
“Madre, fammela tu una promessa. Non parlarne con nessuno. Perché se lo farai allora il male cadrà su di me”. La madre tacque.

“Allora, ragazzo, dove stanno?”, la voce inconfondibile del capo villaggio, al ragazzo andò di traverso il pezzo di formaggio, si girò. Già dentro la capanna, vestito con gli abiti sacri, con i suoi sacerdoti al seguito, il ragazzo lo fisso intensamente, poi passando con lo sguardo verso il padre piombò due occhi accusatori sulla madre che abbassò il capo. Il padre intervenne, “figliolo, questa è una faccenda che si deve risolvere…” e la madre, “…è per il tuo bene”.

“Non ho nulla da dire, non so neanche chi state cercando”-

“I demoni, i demoni. Tu li hai visti”, la voce dello stregone tuonava sorda.

“I demoni? non li ho mai visti.”

“Tu menti!”

“No, io sto dicendo la verità, da me non potrete aver nessun aiuto”, si portò verso l’uscio.

Lo stregone lo afferrò per un braccio, con tono minaccioso: “Bada, ragazzo…”

Il giovane lo fissò con sprezzo e guardò di nuovo la madre, con un’espressione che lasciava intendere tutte le conseguenze dei fatti. Si strattonò dalla presa dello stregone e uscì fuori.
Il popolo della tribù si era adunato nello spiazzo, il ragazzo vi passò in mezzo. C’era silenzio, poi una voce: “Posseduto!” e altre, “Vuoi dannarci tutti?” “maledetto” “tu sei un diavolo” i diavoli in Terra porteranno la nostra fine”. Incominciarono a spintonarlo, qualcuno sputò. “Cosa volete da me? Lasciatemi in pace”. Sopraggiunse il padre che si parò davanti: “Fermi, è ancora disorientato. Dategli tempo, mio figlio non sa bene il pericolo che sta correndo. È solo una vittima dei diavoli”.
Il ragazzo restò fuori il paese per tutto il giorno, rientrò la notte fonda. I giorni che seguirono furono una continua persecuzione degli abitanti, ovunque andasse, qualsiasi cosa facesse era bersagliato da offese e feroci minacce. I suoi coetanei lo dileggiavano ed anche quelli che gli erano stati amici lo evitavano. Alcuni prepararono una spedizione punitiva e vicino al pozzo tentarono di buttarlo giù. Lo stregone, con la sua voce cavernosa, li fermò. Gli attentatori indietreggiarono, lui si avvicinò al pozzo. “Ragazzo, quanti laghi ci sono nel nostro territorio?” Il pastore era rimasto senza fiato, per il pericolo incorso. “Te lo dico io, tanti. Ma solo uno è quello che cerchiamo. Non ce lo vuoi dire?”. Il ragazzo ingrottò la fronte. “Sta bene! Domai manderemo spedizioni in tutti i laghi. Li troveremo. Ah, se li troveremo!”.

fine prima parte

mercoledì, novembre 7

messaggio criptico























































Io
non sono superstizioso

Io la superstizione non la capisco proprio. Si dice che porti sfortuna camminare sotto una scala, quando l’operaio sta lavorando in bilico contemporaneamente con un secchio colmo di pittura e una siringa di cemento a presa rapida; si dice che porti sfortuna rompere gli specchi, i cristalli di Boemia, il tucano Swarovski da 1200 euro… e graziealcazzo!

Allora io ci aggiungo che porta sfortuna bruciare i soldi, gli assegni, i buoni postali e tutti i titoli a rendita, molta più sfortuna se sono intestati al piromane; porta sfortuna farsi una passeggiata di notte nei vicoli del Bronx; andare a visitare lo zoo safari di Persano in spider con la capote abbassata; porta sfortuna lavare la macchina con l’acqua ragia; porta sfortuna mandare ‘affanculo il proprio capo senza un’alternativa soddisfacente; grandissima sfiga a chi è andato per funghi nella valle delle Tre Gole in Cina mentre si aprivano le acque della grande diga, ma sono i funghi cinesi i colpevoli, li avete mai visti? E che sono funghi? Sembrano mucillagine. Se non portano sfiga quelli…

Invece si dice che porti fortuna pestare una cacca, non quella bella grande e generosa di una vacca, tutta paglia che si toglie con niente e neanche quelle piccoline e secche che basta un calcetto e saltano via, no, quelle medie, spalmose come la nutella, prodotto di una digestione a base di mastice da falegname… allora preferisco tenermi la mia sfortuna e le scarpe pulite.

lunedì, novembre 5

L'altra faccia del crimine



Alcune volte la protesta di massa offusca le menti.

Non ho più la forza di ripeterlo.

In seguito all'ordinanza del Sindaco di Roma, di sgombro del Campo rom di via dei Gordiani, il 30 ottobre con l'intervento improvviso delle ruspe e la demolizione dei container con gli oggetti personali delle famiglie che vi abitavano, sono stati schiacciati e violati anche i diritti dell'infanzia. Le foto sono di Roberto Pignoni, tranne l'ultima. Il campo non era un accampamento fuorilegge ma una struttura impiantata dal Comune, come si può capire dalla foto aerea, e assegnata legalmente a coloro che vi stavano domiciliati.

Questi metodi da squadretta d'assalto non sono una novità, lo stesso Pignoni testimoniò un altro intervento simile durante la giunta Rutelli.

Sembra che non si conoscano altri modi per intervenire, la prevenzione democratica si accompagna con la memoria e purtroppo quella manca. Veltroni si preoccupa di preservare la memoria della 2a Guerra Mondiale e delle deportazioni degli ebrei di Roma, e non si cura di avere memoria di eventi molto prossimi, di appena 7 anni fa e li ripete.

C'è qualcosa di illogico, tra pensare in un modo e agire in un altro. E soprattutto una pochezza di pensiero su soluzioni sociali alternative. C'è pochezza di materia grigia, pochezza di volontà, la miseria umana sta nel cancellare il problema piuttosto che risolverlo. Non si è mai fatta un'analisi seria e concreta, continuiamo così, al prossimo sgombro forzato, tra altri sette anni.







mercoledì, ottobre 31

Il regno di Balua

Questo è il Regno libero di Balua, dove la sfiga non esiste perché è soltanto un 'prodotto delle nostre elucubrazioni mentali'. Tutto ciò che desideriamo, in questa terra accade, a patto che non sia un desiderio dettato dall'invidia. Tutte le nostre aspirazioni, i nostri sogni si realizzano. Non ci sono limiti alla volontà di amare perché l' egoismo è bandito. Possiamo profondere il nostro amore verso il prossimo senza diffidenza. Il dolore si trasforma in felicità, il pianto in sorriso, la nostra vita darà vita agli altri, il nostro cuore sarà il cuore degli altri.
Tutto quello che sarebbe dovuto essere, è.
Tutto quello che doveva essere, sarà.
Difficile trovarla, fortunati quelli che ci riusciranno , perché bisogna crederci. Chi nutre dubbi, gli girerà intorno senza accorgersi di stare ad un passo dalla felicità.

lunedì, ottobre 29

KARAKAI

Kai è andata a Roma ed io non sono riuscito ad andarci. Non siamo padroni del NOSTRO tempo, eppure è il nostro. Forse saremo padroni dello spazio, che non è il nostro?! Avete mai avuto notizia di qualcuno che ha regalato una terra ad una donna? Mai, neanche Antonio ci riuscì con Cleopatra. E Colombo aveva tutto spesato.
Perché le donne si accontentano di poco (!),
sono come gli indigeni del 1600, basta regalare loro cosucce luccicanti (!). Lo sanno bene i ricchi emiri che coprono le innumerevoli mogli con cascate di diamanti, che sono solo pietre dure e in fondo non servono a nulla. Kai si accontenterebbe di queste cosucce insignificanti? Non credo, per Lei è ben poco.
Eccoti un regno, bello che fatto. Un poco come gli appezzamenti di terreno su Marte che hanno già dei proprietari.
Ma tu lo hai dedicato a tuo nome e sta sulla Terra.
È il minimo per te… karakai

giovedì, ottobre 25

Uno scherzo goliardico da spiegare




Vorrei chiarire un concetto, non è che io non essendo d’accordo con le linee comportamentali e/o politiche di Veltroni non sia di sinistra; è lui che di sinistro gli è rimasto soltanto il tiro. Ad essere più precisi questa sinistra governativa è tutto fuorché una Sinistra. Veltroni è un borghesuccio viziato (come molti intellettualoidi di sinistra) ed il suo modo di fare e gestire le cose pubbliche è in linea con la sua condotta di vita. Non disonesta, ci mancherebbe, anzi anche ben retta, ma puntuta alla scalata verso il potere con l’ambizione tipica di qualsiasi borghese finto-cattolico appartenente all’ex generone romano.
Il fatto è che non c’è proprio niente da fare, quello così è e non si può cambiare. A meno che con un colpo di mano non venga un ‘nuovo’ soggetto; ma siccome WV ha le spalle ben protette da una fitta rete di potentati imprenditoriali a destra e a sinistra, la ipotesi cade nel vuoto. Una seconda possibilità sarebbe un suggeritore di sinistra che lo blocchi ogni volta che sta per dire una cazzata o peggio fare una collionata, per ringraziarsi i suddetti potenti (la maggior parte dei quali, chissà perché, hanno in comune la passione del canottaggio teverino, anche se non ha mai messo il culo su una canoa, mah! misteri romani).
Dunque questo suggeritore di sinistra gli direbbe ciò che ha sbagliato per non errare in futuro.
Ora faccio un esempio, piccolo piccolo, così per capirci.
Facciamo che il suggeritore sia io e che con tutto il rispetto dia del Tu a WV.

A caso ho preso questa figurella che hai subito a settembre dinanzi ai giovani di AN.
Per prima cosa ti dico: questo scherzo ha un vizio di forma. E tu lo avresti dovuto capire ma ci sei cascato con tutti i panni. Infatti era impossibile non cascarci perché le borgate romane non solo sono numerose, e neanche era questo il motivo perché tu non sapessi della borgata Pinarelli, ma vengono chiamate anche con nomi diversi dagli abitanti che vi risiedono, secondo le stagioni e gli eventi; inoltre molte borgate sono sparite e altre sono nate, molti nomi sono scomparsi e altri doppiati con nuovi. Potevi tranquillamente accettare di esserci cascato perché chiunque sarebbe caduto in inganno, e non te lo dico con il senno di poi, perché queste sono azioni comportamentali che dovresti avere inserite nei tuoi geni e che evidentemente non hai. Invece no, hai continuato a negare l’evidenza non rendendoti neanche conto che così cadevi ancor più nel ridicolo. Questa è presunzione, ne hai parecchia, e ti arreca più danni di quanto possa immaginare.

Il mio consiglio non ti costa niente, perché non rientro nella categoria ‘iopoliticovoglioesserepagatoanchelariacherespiro’.

Sicuro che questa mia non sia servita a un casso,
porgo i miei riverenti saluti

uno di sinistra

martedì, ottobre 23

Una faccenda mutuata dalla cunzia

piccola premessa
questa storia nasceva come racconto ma poi mi stancai e, avendo tutto già tutto in mente, la conclusi come mezzo soggetto per un ipotetico film. Solo due persone l'hanno letta: una mia carissima amica e (forse) un regista e attore pugliese, al quale alla fine di una sua conferenza gli passai un foglietto, con su scarabocchiata una email incomprensibile.
Ma in verità a me sembra tagliata per due attori che si sono già cimentati insieme in un film di Scola: "Concorrenza sleale", Castellitto e Abatantuono. Il primo lo vedrei come Marcolando, il secondo come il barone. Giudicate voi.

Una faccenda mutuata dalla cunzia

“Ha costruito per far qualcosa, per ottimizzare al suo fisico quello che gli sta intorno. Ma perché un raggio isolato va ad accendere quell’unico paesino incastonato nella penisola, affacciato sul Mediterraneo? Un caso. Eppure simili amenità sono l’essenza delle sue ragioni. Fare e pensare per riformattare il mondo, poi ritornare a pensare su questa impalcatura, continuare a pensare e costruire ancora impalcatura sopra impalcatura. Sino a quando la già vecchia verità diventa invisibile. E la nuova verità, che è già antica, diventa la verità. Ma c’è mai stata una verità?”
Il vecchio Marcolando non lo aveva mai detto a nessuno; aveva continuato la sua modesta esistenza aspettando quel raggio di sole che una volta veniva e una volta no ma sempre sospirando dinanzi al cielo che nulla ha veramente un senso, nel senso di verso, cioè che non c’è nulla in cui possiamo riporre la certezza che sia nel verso giusto. Il sole che spuntasse o meno non aveva importanza così come il suo insolito nome, Marcolando si limitava a dire ai suoi compaesani che nel paese dei pazzi il savio è il vero pazzo. Su tutto si può trovare una ragione e tutto è possibile, anche che un pazzo diventi il capo di una nazione e che la strage di innocenti inermi sia giustificabile e che la vita abbia un senso, ma chi, cosa ci dice che quello sia il senso, nel senso di verso, giusto?
Marcolando non era nato contadino, aveva fatto studi di avvocatura e per un paio di decenni esercitato. La verità dell’avvocato è una ricostruzione finalizzata, sul codice penale e civile. Marcolando decise di raccontare l’indicibile e per questo aveva lasciato la professione. Ma era difficile, tanti titoli, tante stesure e lui intanto diventava vecchio. Poi ebbe una trovata: prima avrebbe scritto senza dare un senso alle cose, poi lo avrebbe cercato, come succede nella vita. A incominciare dal titolo che in fondo non significava nulla. Eppure tutto si può vestire di significato perché è l’uomo l’artefice del suo destino. Poiché il verso giusto non esiste, ogni frase è buona per acquisire un significato apparentemente sensato.
Il costruttore era il ricco proprietario terriero, vero padrone del paese e di quasi tutte le terre circostanti. Aveva costruito la sua dimora in faccia al mare per cogliere quel raggio di sole; ma una casupola rurale su uno dei rari fazzoletti di terra ancora non suoi, catturava il raggio per prima lasciando alle spalle un cono d’ombra che finiva giusto nello studio del barone. Non che il palazzo fosse mal esposto: la mattina si svegliava accarezzato dal sole e tutte le camere si inondavano di luce. Era solo nello studio la pecca, lì il barone passava quasi tutta la giornata e quando il sole si poneva nella giusta posizione per entrarvi di slancio ecco la casetta pararsi davanti. Il barone, scurito dall’ombra e dalla stizza, era costretto ad accendere i lumi. Mentre Marcolando si godeva il sole pomeridiano in una sedia a dondolo con le gambe distese su uno sgabello, senza aver mai cercato il sole. Perché era lui l’abitante di quella casetta. Il barone aveva persino querelato l’architetto che gli aveva progettato il palazzo e l’architetto si era difeso, anzi si era fatto difendere dall’unico avvocato che si era sentito di difenderlo, Marcolando, l’ultima causa prima di ritirarsi. La potenza del barone si era manifestata, nonostante la calda arringa di Marcolando, l’architetto aveva perso la causa ed era stato costretto a rimettere il settanta per cento della parcella, che neanche era stata pagata. Poco male, Marcolando continuava a godere del sole, a scrivere sotto la luce naturale il suo strano libro: “Una faccenda mutuata dalla cunzia”.
La vittoria di Pirro del barone non era bastata a quietarlo. Quel cono d’ombra che si presentava tutti i sacrosanti giorni nel suo studio lo inferociva e se ne stava quasi prendendo una malattia. Quando il sole rifaceva capolino nello studio era già spento di un rosso cupo di tramonto e in pochi minuti scivolava dietro la montagna. All’inizio il barone si rendeva conto che quella situazione era scaturita solo da un increscioso incidente ma in seguito, con la bile salita al cervello, aveva individuato in Marcolando la causa del suo guaio; come se l’avvocato avesse costruito lo propria dimora prima della sua. Marcolando godeva di questa situazione di vantaggio e non lo nascondeva; sebbene lui simulasse dispiacere e rincrescimento, il barone sentiva di essere canzonato, Marcolando lo stuzzicava.
Comunque i dissapori nascevano da lontano…

La visita del barone

Marcolando con lenta e impeccabile precisione stirava i pantaloni nella prima stanza dell’ingresso. Di tanto in tanto alzava lo sguardo verso il sentiero che portava su alla casa. Una figura nera, imponente si muoveva intenta a guadagnare faticosamente la salita. Marcolando spostò la tendina, era il barone avvolto nel suo mantello nero. Si disegnò sul suo volto un’espressione compiaciuta.
Un momento fermo ad attenderlo, poi gli balenò in testa una scena e assicuratosi che la porta d’ingresso fosse ben aperta, era sempre aperta, si fiondò a grandi salti sul terrazzo, sistemò la sedia reclinabile in direzione del sole e si sdraiò in attesa.
Il barone bussò e chiese permesso. “Avanti”, sospirò Marcolando con una voce teatralmente stanca e riposata, “sono in terrazza, venite pure”. Chiuse gli occhi e rilassò tutti i muscoli. Sentì il fruscio del pastrano del barone avvicinarsi, non mosse un dito. Qualche secondo in attesa: “Allora, avvocato…”, trovarlo in quella placida posizione indispose il barone. Ancor di più quando Marcolando gli rispose senza aprire gli occhi, con palese finta sorpresa: “Ah, è lei barone…”, e giù un sospiro. “Avvocato…”, il barone si pose avanti la sdraio, ombreggiandogli con la sua mole. “Barone…si sposti…mi fa ombra”.

“E’ proprio di questo che sono venuto a parlarle”.

Marcolando aprì gli occhi mettendo una mano sulla fronte, la sagoma del barone in controluce lo sovrastava: “In che senso?”

“Nel senso che dobbiamo risolvere questo problema”

“Quale problema, io non ho nessun problema”

“Ma ce l’ho io!”
Marcolando sbuffò, quello che doveva essere un accenno di riso, scuotendo in su la testa, per far intendere la sua completa indifferenza a questa faccenda.

“Avvocato”, il tono aveva la parvenza di una minaccia, “dobbiamo venire a capo di una soluzione".

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(gli offre molto denaro per abbattere la casupola, la vecchia e cadente dimora dei genitori, promettendogli una splendida villa alle porte del paese ma l’avvocato rifiuta (“quanto può valere il sole?”). La moglie di Marcolando litiga con lui. Il barone e l’avvocato sono sempre stati antagonisti, l’avvocato ha spesso difeso i contadini dai soprusi e le prepotenze del barone. Il più delle volte l’avvocato ha perso le cause perché il barone prezzolava i giudici giurati e testimoni. Ora per l’avvocato questa è una rivincita.
Dopo una serie di rocambolesche vicende con screzi anche infantili da entrambe le parti (per esempio, un giorno il barone conta i pochi secondi che il sole ci impiega per illuminare lo studio prima di calare, ma si accorge che l’oscurità arriva prima perché Marcolando si frappone e la sua ombra entra nello studio, provocando un attacco isterico al barone, non compreso dalla sua famiglia). Ma alla fine Marcolando viene messo alle strette. E’ costretto ad abbattere la casa per pagare gli infiniti debiti cadutigli improvvisamente, per recuperare la moglie che non intendendo il suo orgoglio, che lo sta portando alla rovina, lo lascia. Con la rabbia in corpo va a trovare il barone proprio nell’attimo in cui il sole per la prima volta, senza ostacoli sta entrando nello studio. Il barone è seduto alla scrivania con le mani appese al panciotto in agognante attesa di essere accarezzato dal raggio di sole. Zittisce con una mano l’ira fremente di Marcolando che quasi fosse al cospetto di un evento miracoloso, di un rito sacro si blocca anch’egli in attesa. Ma…nel momento in cui la luce colpisce il barone, questi ha un infarto, agonizza con gli occhi sbarrati. Sarà proprio Marcolando a salvargli la vita.)

Nota: la frase all’ inizio del racconto è virgolettata perché è l’arringa di Marcolando nella causa di difesa dell’architetto