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sabato, giugno 9

Il dialogo di un essere perenne con la morte

No, io non l'accetto. Mi si potrà dire quello che si vuole, ma per me la morte è una sconfitta dell'uomo. Non è necessaria, se ne potrebbe fare a meno,  nessuno la rimpiangerebbe. In questi due secoli abbiamo vinto delle battaglie, la tubercolosi, il vaiolo, la sifilide, la lebbra, il colera. La vittoria finale è  sua.
Voi umani, mortali a tempo, l'accettate con rassegnazione, io che sono un essere perenne non mi rassegno, non mi rasssegno all'idea che quelli intorno a me debbano continuamente lasciarmi, tutti.
In 1300 anni della mia esistenza, mi sono visto sfilare le vite delle persone più care. Non mi sono chiesto, perché non io, ma perché loro no.

La Morte, con il suo passo lento e silenzioso, si accostò all'essere perenne: "Possiamo discuterne, se vuoi."

Giò si era incontrato con Lei quattro volte. La prima volta, incuriosita dai suoi primi 150 anni, gli aveva chiesto perché non espiasse la vitacome tutti gli esseri viventi. Lui non aveva saputo trovare spiegazione. La seconda volta, ai 400 anni, fu Lei stessa a dargliela. Gli disse che tutti gli uomini ad un certo punto sentono il bisogno di pregare; sperare nella fine dei propri mali, il senso del pregare, con o senza un Dio. Lui non sentiva questa necessità, per sé; ma nel corso della sua lunga esistenza, era stato tentato dal farlo, per gli altri, coloro che lui aveva amato. E aveva pregato la speranza. La Morte non attese la speranza. "Tu non hai paura di me, nessuno deve averne, io sono quello che sono" "Morte, tu vieni qui a lusingarmi, non me ne faccio nulla dei tuoi complimenti. Non è che non voglio venirti incontro, è che non ne sento la necessità. Tu dammi una prova concreta che sei utile agli uomini."

"In un piccolo paese c'è un piccolo cinema. Se gli spettatori non lasciassero la sala, non permetterebbero agli altri compaesani di vedere il film. Io sono la Morte per gli esseri già nati ma sono la Vita per quelli che devono ancora nascere. Se nessuno morisse, la Terra diventerebbe un luogo inospitale e la specie umana ben presto si estinguerebbe. Non dico di essere indispensabile, ma ora lo sono. Forse un giorno, gli uomini allargheranno i loro orizzonti, e quel giorno io non sarò più necessaria per salvaguardare le vite che sono al di là da venire."

"Ed io?"

"Tu solo, sei il caos. Curo la mia eccezione, come una pianta rara. No, non dovevi nascere.

"Non è colpa mia"

"Non vorresti riparare all'errore?"

"No!"

"Non vorresti avere uno scopo nella vita?"

"In che senso?"

"Nel senso che ora la tua vita non ha una meta da raggiungere. Sei un essere che non sogna. Io Morte offro agli uomini di darsi una ragione di esistenza.Sapendo di avere un tempo definito, si danno da fare per realizzare i loro sogni. Tu no, sei abulico; il tuo cronometro è rotto e non ti costringe a muoverti. Sei immobile nell'Universo."

"Nulla ha un senso, se si deve morire"

"È il contrario"



sabato, febbraio 13

Dal “Diario di un essere perenne” 10


Ogni volta che mi trovo a spiegare la mia condizione di essere perenne, trovo una certa difficoltà. È semplice a dirsi ma i ricordi dei mille e mille anni della mia esistenza si affollano nella mente e disturbano il concepimento del pensiero. Io sono un essere perenne, non immortale. Potrei vivere all’infinito, più del sole, più dell’Universo, ma l'ambiente esterno non rispetta le mie potenzialità e prima o poi, per la legge delle probabilità, avrà il sopravvento su di me. Devo stare attento a preservare il corpo. Nel frattempo esisto, esisto come le rocce, come l’acqua, come gli atomi di idrogeno, esisto, non vivo. Le ragioni della mia vita non sono quelle dei mortali, io non ho una scadenza. Continuo il corso senza frenesia del tempo che passa, il fare lavorare, procreare, fare e morire. E perché dovrei fare se non devo morire? Fare cosa? Per cosa? Così anche l’amore legato alla vita finita, mi è sconosciuto. L’amore che serve ad unirsi per la paura di scomparire senza lasciare testimoni della propria esistenza, di esseri vissuti. L’amore per cercare nella solitudine della mortalità, un’altra vita che si accomuni alla condizione dell’uomo, e dargli un valore perché non si estingua come un vuoto a perdere . Non ne ho bisogno, e anche se volessi non c’è in me una spinta che mi porti a cercare o concedere amore. Una roccia può avere sentimenti? Può provare orrore o gioia? Una roccia… può provare amore, una roccia che non produce calore? Mi scaldo solo se scaldato, la mia pietà è quella di fermare prima la volontà di chi può farlo, forse questa è una forma di amore, non accettare nulla che non può essere ricambiato, forse è semplice onestà. Non succederà mai. Il mio dramma è che se gli altri hanno una ragione di vita per dare un senso alla morte, io non so quale sia la mia ragione di vita per esistere perennemente. E dopo svariati secoli di vana ricerca, nasce in me la convinzione che una ragione non c’è. Io esisto e basta, esisto per le stesse ragioni della roccia.

giovedì, dicembre 17

Dal "Diario di un essere perenne" V (parte 2)



parte due (parte uno)
Molte volte mi sono ritrovato a passare per la via Giulia, senza mai riportare alla mente quell’episodio. Solo ora che stavo tentando di bere al Mascherone, chiuso per metà da un muro, compresi il motivo del mio oblio . Non vi avevo più bevuto per l’impedimento attuale, causa della quasi rovinosa caduta in acqua. Istintivamente mi rivolsi all’angolo di via del Polverone, la locanda di sor … I locali erano occupati dall’agenzia di una banca. Dopo la estinzione della famiglia fu a lungo abitazione, poi legnaia, abitazione, locanda di nuovo, abitazione, deposito, ristorante, abitazione e, per l’appunto, banca. A Roma c’è sempre un momento in cui un immobile arriva nelle mani di un istituto di credito. Una volta era il Regno-Stato Vaticano ad avere l’esclusiva; dopo generazioni di passaggi si giungeva immancabilmente ad un ramo morto e scattava la donazione, la chiesa sa aspettare, ha il tempo dalla sua, come me. E per avere il tempo indefinito come me, non può amare e non cerca di essere amata. Sotto la locanda c’era la cantina ricavata da ambienti di origine romana. Lì, alla luce delle torce, avevo assaggiato le mescite speciali del sor …, mi ubriacavo a scrocco, osannando l’arte di Bacco e compiacendolo.
Le mie amicizie, i miei sentimenti hanno una scadenza, se le persone che mi frequentano non mi recuperano con forza, io sparisco. Non posso provare sensazioni , emozioni che solo gli esseri con la vita a termine posseggono. Io sono un essere perenne. Il mio cuore è refrattario, si può anche riscaldare ma la fiammella deve essere continuamente ravvivata, in un attimo si raffredda, la mia natura è fredda; in breve tempo i sentimenti si deteriorano, cancellati dalla consapevolezza della eternità, la saggezza millenaria copre le mie pecche, sino a sostituirle del tutto. Il corpo di un giovane, la sapienza di un vecchio, l’immaturità di un bambino. Quando una persona incomincia a provare un affetto, che sia amicizia o amore, io temo, mi distanzio e stacco. È inutile portare avanti ciò che non è possibile. Ambizioni, progetti, scadenze, date da rispettare non hanno significato. Non riconosco i compleanni, non festeggio i piccoli passi del proseguo della vita, nascite e morti. La mia memoria è breve, si rinnova, si rigenera continuamente per non invecchiare. Ecco cosa significa essere perenne.
Il palazzetto era stato totalmente ristrutturato, forse di originale erano rimasti solo i muri esterni. Ma il terrazzino appollaiato in cima, da dove mi affacciavo verso il giardino che ora è un parcheggio, e verso il Tevere, non sembrava cambiato di molto.
(continua in Roma Edo andata senza ritorno

sabato, maggio 30

Dal "Diario di un essere perenne" v



L'uomo che non sapeva amare.
Era stato decisamente un bello spettacolo, una serata piacevole. Ma non mi era bastato per dimenticare l’odore acre del sangue di quella mattina, lo sentivo dappertutto, anche nel delizioso giardino del conte D’Alibert, tra i fiori e le essenze delicate. La testa era stata messa dentro una gabbietta che pendeva sulle mura di CastelSantangelo, con le mosche che ci facevano la giostra. Domani glielo avrei raccontato, domani; ora sul fiume, di traverso la barca ci portava sull’altra sponda. C’era il ponte pochi passi avanti ma il principe B. aveva preferito così, diceva che gli veniva più vicino e poi faceva lavorare il traghettatore, un vecchio gigante dalla pelle arsa. Che satiro il principe, parlava solo di quello e ora, anche la cantante femmina ci voleva, una splendida creatura connazionale del conte, il quale l’ aveva fatta recitare infischiandosene delle ordinanze, perché a casa sua faceva quello che voleva. Aveva promesso che prima o poi nel suo teatro sarebbe accaduto, non lui ma altri, nel suo teatro una donna avrebbe recitato la parte di donna, non lui certo, altrimenti avrebbe fatto la fine di quel tal Barbero. Il teatrino all’aperto del conte era una sciccheria, il casino costruito esclusivamente per utilizzare la facciata come sfondo del palcoscenico e avanti le scale che portavano al giardino, che fungeva anche da platea se la scena era grande e questa lo era. Lo spettacolo si era protratto sino a tarda sera, una messinscena tribale, una storia curiosa tra finti indigeni e la bella francesina che impersonava una dea. Al calar delle tenebre, luna nuova luna nera, il conte non si era arreso. “Signori, una piccola pausa, rimedio subito”. Il principe aveva colto l’occasione per fiondarsi dalla francese e le aveva chiesto se avesse già alloggio. “Qui, nel palazzo” . “E me lo chiama palazzo? Ah ah, ma neanche come cuccia del mio cane… “. In effetti aveva quasi ragione, il “quasi” era d’obbligo per i suoi secondi fini che si leggevano dagli occhi spiritati, ma il casino D’Alibert era veramente un mezzo palazzo, una parete profonda poco più di tre metri, e due torrette ai lati, uno spazio corridoio per ognuno dei tre piani e due stanze una sopra l’altra in una torretta che si raggiungevano dalla scala che occupava tutta l’altra torretta. “Provvederò io al suo soggiorno!” , e certo che avrebbe provveduto. Che poi il fortunato, per quella sera sarei stato io, in quanto la dolce fanciulla avrebbe dimorato nella stessa casa d’affitto dove ero alloggiato, che il conte aveva in angolo a via del Polverone. Così deciso, un battere di mani ed ecco arrivare D’Alibert con due aiutanti che abbracciavano fasci di grossi ceri. “Conte, che ha derubato una sacrestia?” Le dame ridevano. “Poggiate, giù, su su”, con una vocetta affettata, dava direttive, non pareva con quell’aria da piccoletto damerino evirato, era un vero mandrillo, sfornava figli su figli con la sua sposa bambina. “In un certo senso… me li sono fatti prestare dal sacrestano di San Giuseppe”. In breve, con la scena tutta circondata da moccoli, lo spettacolo riprese.

Il fiume nero e misteriosi corpi che scivolavano silenziosi, mi sembravano pezzi di cadaveri, come quelli appesi dal boia. Meno male che c’era la chanteuse a distrarmi, il principe aveva avuto proprio una bella idea. “Ti raccomando!”, disse ad un certo punto. “Mi raccomandi? E di che?” “Comportati bene” “Se non sei sicuro di me, perché non te la porti a palazzo?”. “Sei pazzo? Una attrice e per giunta femmina e per giunta straniera al palazzo di un Papa?” “E allora… “ . Un dolce approdo, il principe saltò per primo e da vero galantuomo porse la mano alla dama, i due si avviarono sulla pedamentina di legno, lasciandomi solo. “Ehi, signor principe, c’è da pagare Caronte!”. Erano già nel cortile che immetteva sulla strada. Dovetti sfangare due monete, in fondo mi ospitava; però mi incominciai a preoccupare che fosse anche capace di presentarmi il conto.

Si erano fermati a bere al Mascherone, lei rideva ad ogni parola, pareva gradire la sua ironia terra terra. Nel vedermi lui aveva fatto una battuta, che non avevo capito seguita da una squillante risata della francesina. Quella per me non era stata una gran bella giornata, non avevo proprio voglia di partecipare. “È più avanti, vero?”, chiesi serioso. “Sì, la prossima traversa”, e giù un’altra risata e lei a ruota. Arrivammo al portoncino, lui bussò. “Ah, ma allora ci abitano?” “È il bottegaio che gestisce la cantina sulla strada Giulia, sta al primo piano con la famiglia”. Sentimmo un rumore fragoroso e poi una botta sulla porta. Il principe attaccò a ridere, doveva aver capito che era successo. Aprì, tutto trafelato, con una mano in testa e un’altra che reggeva un cerino spezzato, un tipo grassoccio con dei baffoni neri, si lamentava . “Ah ah ah, sei scivolato per la scala… ah ah, hai preso una capocciata sulla porta… ah ah ah” . “Ohi ohi, signor principe .. è così…” Ovviamente anche la cantante se la rideva di gusto. “Gesù Giuseppe e Maria! Che è successo?”, una voce di donna che proveniva dal pianerottolo della scala. Era la moglie dell’oste. “Non ti preoccupare Teresina, è solo tuo marito che ha sbattuto le corna, eh eh, ma non si sono rotte. E meno male che ci pensi tu a tenergliele belle floride. Ah ah ah ah.” “Principe, principe a quest’ora noi si dorme… ecco…”, aveva rivolto lo sguardo verso l’interno, ”... e si è svegliata anche Lucia”. Qualche parola che si perdeva nel corridoio, Lucia l’avrei vista solo il giorno dopo. “Ora sistemiamo i miei ospiti e poi tutti a nanna”. Il principe già aveva deciso, io come stabilito avrei soggiornato all’ultimo piano, il sottotetto con il terrazzino, la cantante in una stanza al secondo piano. Teresina mise un po’ d’ordine e rifece il letto per la francese. L’oste mi accompagnò facendomi luce sulla angusta scala ad una sola rampa, seguito dal principe. “Bella piccionaia”, pensai tra me e me, ma come si dice a caval donato…“E a me Teresina non viene a sistemare il letto?” “Ah ah, quale letto? ah ah ah”, il principe stava proprio in vena quella sera, anche l’oste ripresosi dalla testata, rideva. “Dove dormo?”, chiesi paziente. “Dove vuoi.. eh eh il sottotetto è tutto tuo… e c’è anche il terrazzino”. L’oste premuroso mi diresse nella stanzetta con finestra che immetteva al terrazzo, mi indicò una branda con un pagliericcio. “Per ora si accomodì, domani le faccio portare da Lucia un materasso decente”. Ringraziai l’oste. “Bene”, disse perentorio il principe, ora saluto la francese e…” Rimase con le parole appese e una luce negli occhi che era tutto un programma. “Saluta la francese… e non saltare troppo che sotto c’è gente che dorme”, guardai l’oste che mi rispose con un’alzata di spalle e di baffi. “Notte, notte, notte, notte…” , il commiato del principe si spense nel buio della scala. L’oste mi aveva lasciato una manciata di cerini, delle piccole candele. Restai solo, nel silenzio della notte al buio, mi accorsi di non avere sonno.

continua parte 2



mercoledì, dicembre 17

Dal "Diario di un essere perenne" 5





Io non ricordavo più il nome di quella chiesa, erano passati tanti anni da quando la visitai l’unica volta. Da fuori era rimasta la stessa, come me. Nessun segno di invecchiamento sui mattoncini che rivestivano la facciata sin da terra, senza basamento. La parete aveva una leggera inclinazione all’indietro con la statua della Madonna sporgente da una nicchia al centro, ero rimasto incuriosito da questo pavimento all’insù che invogliava alla scalata. Anche ora avevo lo stesso istinto e, poco prima di entrare, mi misi sotto sotto come feci allora, per sfidare la gravità.
All’interno, nell’unica navata, si percepiva l’odoro di antico e di vecchio. Poche decorazioni, le statue erano le stesse, ben lucidate, pulita asettica. Quella volta era estate e vi trovai refrigerio, le pareti erano state imbiancate da poco, illuminata e fresca. Ora mi proteggeva dal freddo portentoso di un inverno anticipato e le pareti erano di un rosa scolorito. A destra del presbiterio c’era una cappelletta rivestita di legno scuro, dal soffitto basso ed una trifora gotica con i vetri colorati. La luce che filtrava, multicolore, dava un effetto benefico, ed ancora lo provavo; in quella lontana estate torrida lì dentro sembrava una sauna, ne uscii subito, ed anche ora feci lo stesso, come se il ricordo mi condizionasse i sensi. Mi avvicinai al leggio, come allora. Ed io, ero lo stesso di ora? la condizione di essere perenne frastornava i miei pensieri, ogni volta che volevo distinguere il prima e il dopo. Per me tutto doveva restare immutato, eppure la vita degli altri, la loro esistenza esigeva cambiamenti; spostarsi, andare avanti, realizzarsi, vivere vivere viene pagato con la vecchiaia e la morte, è dovuto. Per me niente vecchiaia, niente morte e niente vita, amore vita morte, nulla, una condizione perenne della stabilità del nulla.
Meditavo su queste cose, in piedi avanti l’altare quando sentii dei passi ed un leggero colpo di tosse, qualcuno era appena entrato. Non mi voltai subito, c’eravamo solo noi, io e questa persona che doveva essere una donna matura; infatti, mi spostai appena, come per osservare i finestroni laterali, e la vidi. Era già avanzata parecchio e si trovava poco più a destra di me. Alzando la testa ci incrociammo in uno sguardo furtivo. Io conoscevo quella donna. La lunga esperienza sulle trasformazioni dei luoghi e delle cose aveva allenato la mia mente, riuscivo a decifrare quello che i segni del tempo mutano. Lei sì, io la conoscevo, lei era stata la causa della mia prima visita, ora non potevo crederci. Era lei, trenta anni dopo. Anche lei, certo, era rimasta per un momento a bocca aperta con un’espressione sbalordita; ma subito si era ricomposta e indirizzato lo sguardo al dipinto della Madonna nell’abside quadrato. La osservai di nuovo, la donna che avevo amato e lasciato senza una comprensibile ragione ai mortali. Ecco perché mi porto un fardello di ferite mai rimarginate, dolore su dolore, passione su passione, inconclusa vita inconclusi mali, io non supero i dolori, li accumulo, perché la memoria si conserva fissa, ripeto le stesse angosce e se ne aggiunge altra, il prezzo delle mie conoscenze. Aveva impercettibili scatti, che denotavano un leggero nervosismo, una vaga impazienza. Io sapevo, io so tutto, di quello che pensa la gente, del misconoscibile che miete vittime del dubbio sul razionale; pensava che non potessi essere io, era impossibile, irrazionale, eppure ero lì, davanti a lei, forse un fantasma. Non riuscivo a tenere gli occhi lontano, sentiva il mio sguardo. Non se ne andava, stava cercando indizi, ed il modo in cui la osservavo poteva essere una prova, piccola prova. Perché sono condannato a leggere i pensieri degli uomini? Perché non devo godere dell’ignoranza dei nuovi nati? Perché non posso meravigliarmi di una nuova alba e dei colori dell’arcobaleno? Perché non posso amare come un semplice mortale, come ogni animale, dalla vita breve come una libellula, il tempo di amare e morire, solo questo esige l’esistenza naturale. Perdermi anch’io nella vaghezza delle cose, nei profumi, nelle scoperte, del continuo consumarsi sino alla fine… Almeno il cuore, almeno quello mi era stato risparmiato, batteva ancora, e rimbombò nella aula quando lei si girò puntandomi gli occhi tagliati, i suoi occhi dove un tempo mi ero perso.
Aspettava che io parlassi, che le spiegassi o almeno che mi scontrassi; dal tono avrebbe forse capito. Dipendeva da me, ed io non parlai, la guardavo semplicemente, assorbivo con gli occhi la sua figura, inspiravo con gli occhi la sua immagine, come aria vitale per i polmoni. Rimanemmo lì a fissarci per un tempo indeterminato, avrei voluto che lei capisse, non potevo parlare, non potevo spiegare, è incomprensibile, in questa Terra così fragile e umana, io non dovevo esistere, già per lei. Il dolce sorriso, apparve finalmente, lo stesso che ricordavo, come l’avrei voluta riprendere tra le mie braccia. Impossibile. Abbassò la testa, poteva mai saperne più di me? Le donne hanno una capacità di capire oltre le parole, sanno leggere i silenzi e con il silenzio sanno parlare. Mai una parola di troppo, magari qualche parola di meno, e poi tutto sta alla bravura dell’uomo, nel decifrare il linguaggio nascosto. E stavolta era difficile. Ma i suoi occhi luminosi mi venivano in soccorso e dicevano: “va bene, non temere…” Al sorriso risposi con un consenso. Le uscì una voce lieve e flebile: “Sei tu…?!”. Quell’afflato le consumò tutto il respiro. Si appoggiò alla balaustra di legno. “Signora…”, porsi le braccia nell’atto di sostenerla. “La stessa voce!”, era un’altra prova. Respirò profondamente, quasi per rinsavire. “Non può essere, non è la persona che…”. “Certo, io non potrei essere la persona che…”. Mi scrutò con occhi severi, la mia voce e le mie parole sapevano di beffa. “A meno che lei non sia un fantasma…”. “No, un fantasma no, io sono semplicemente una persona, un uomo qualunque”. Seguì silenzio, avanzò lentamente in direzione dell’uscita, la seguivo reggendole delicatamente il braccio. “Tanti anni fa conobbi una persona, come dice lei… qualunque, somigliava a lei”, puntò di nuovo su di me, “mi dica, la verità, ci siamo conosciuti?”
“Non saprei, così… direi di no, ma mentirei, forse ci siamo incontrati, non posso esserne sicuro… forse molti anni fa”. Si fermò, sentii le sue dita nervose stringersi sul mio polso: “Molti anni? Quanti anni?”. “Oh no, dico per dire, anni… alcuni, quegli anni sufficienti perché io non la ricordi più”. Scosse la testa, avanzò allentando la presa: “Perché io dovrei ricordarla e lei no? lei è più giovane, dovrebbe avere una memoria più fresca”, e dopo una esitazione, “... perché tu… sei più giovane!?”
“Gentile signora, io non ricordo il suo nome, non ricordo… ciò non mi giustifica, per questo non merito la sua memoria, io merito l’oblio”. “Oh Signore divino! Allora sei veramente tu…”, barcollò. “Siedi, siediti qui”, le accostai la seggiola del banchetto delle offerte. Mi porse una carezza, emozionata: “Come può essere, come…” In quel momento entrò un signore, la vide, subito accorse chiamandola. “Cosa è successo?”. Lei mise una mano avanti per fargli capire di non preoccuparsi. “La signora ha avuto solo un giramento di testa, penso che sia nulla”. “Nulla”, ripeté lei. Mi scostai, lasciando spazio all’uomo che subito si prodigò. Indietreggiai lentamente. Lei non staccava gli occhi su di me. “Ti porto all’ospedale?”, disse. “Lui è premuroso.” Sorrisi: “Ah, anch’io ero premuroso…”. “Sì, lo eri…”. “Cara, lo conosci?” Avevo guadagnato l’uscita. “Chi?” “Quello!”, l’uomo alzò la testa ma non vide che una porta sventagliare pigramente sui suoi cardini. “Se n’è andato!” “No, era un sogno, ora sono desta ed è sparito…”.

lunedì, settembre 17

Dal “Diario di un essere perenne” 2


Quando nei suoi passaggi di certezze si trovò nella convinzione del nulla oltre la morte, paradossalmente, si sentì scaricato di un peso. Non doversi assicurare alcun prestigio da portare come segno distintivo oltre le barriere della vita era un buon sollievo e una fatica in meno. Considerare la vita stessa come unica certezza per la ragione dell’essere, alleggeriva il compito degli uomini. L’orgoglio, per esempio, spesso rende le scelte e le decisioni difficili. Se la vita è unica, perché mantenere questo orgoglio? Vita unica significa liberarsi da tutte le convinzioni inutili, intolleranze, feticismi, rimuovere dalla mente gli inconcludenti costrutti metafisici e avere più tempo per vivere liberi da pregiudizi soffocanti e triviali. Ma questo lo poteva capire solo lui, l’unico a non farsene niente di questa verità. Lui, essere perenne, pensò che fosse la verità, in sé, qualsiasi verità svelata ad estinguere l’angoscia che sta nel fondo degli esseri mortali.

“Mi accontenterei di saperlo”, disse durante la sua meditazione, parlava da solo perché era l’unico interlocutore di sé stesso, visto che non conosceva nessuno come lui. Margaret, la sua compagna, lo sentì. “Cosa?”, senza distogliere gli occhi dalle sue pratiche. XXX non rispose, il suo quesito era adolescenziale, Margaret lo avrebbe potuto considerare immaturo.

“Allora?”, alzò la testa dalla scrivania, lo scrutò da sotto gli occhiali. XXX strinse le labbra e le spalle. Margaret abbassò gli occhi sulle carte senza dar apparente peso, era abituata ai suoi silenzi.

Il pellegrinaggio delle idee non aveva mai termine, oltre la verità assoluta da cui non poteva prescindere, visto che anche lui aveva un’assolutezza, andava alla ricerca di una verità relativa, uno scandaglio nella sua essenza per verificare la similitudine con gli altri esseri. Aveva trovato un punto di equilibrio, lui che conosceva il tempo perenne, si dichiarò amante dei tre tempi: passato, presente, futuro. Più volte rimasticò questa considerazione. Amava il passato, i ricordi erano un sentimento dell’anima e la nostalgia di fondo lo provava. Il futuro era nei suoi disegni; non poteva fare a meno di ricostruirlo secondo un determinismo che solo lui poteva permettersi, solo lui e nessun altro. E il presente? Lo amava veramente? E se il senso di vuoto era provocato proprio dall’incertezza del presente? La mancanza di quel fulcro, di quel perno della bilancia ove posizionarsi e reggersi era una delle ragioni del suo malessere. La perennità gli assicurava la certezza del futuro ma non del presente, del senso del presente. Senza un appiglio sprofondava nel baratro del Nulla. Nel suo codice genetico il presente non doveva essere contemplato, del resto un uomo senza identità, ovvero senza un tempo caratterizzante, senza una predestinazione alla fine, quale presente poteva avere? Un comune mortale vive in un’epoca, l’intero arco della vita è un presente storico, egli si colloca in una casella con una data, definita da un inizio e una fine, nei termini di quella scadenza c’è il suo presente. XXX passava la storia degli uomini di traverso, nessuna casella lo identificava, nessun presente gli apparteneva. Ecco perché non aveva ambizioni, le lasciava a chi vuole una locazione. Che doveva farne, dunque di questa perenne esistenza? Non costruirsi un presente era un po’ come non vivere. Immobilismo, assenza, rinuncia, erano questi i compagni del suo lungo viaggio, come un’ombra lo seguivano, come l’anticamera della morte, di cui non aveva le chiavi, anzi come l’ombra perenne della morte, la sua stessa ombra, che mai avrebbe raggiunto.

domenica, maggio 20

Dal ‘ Diario di un essere perenne ’



Condizione

“io vivrò per essere dannato eternamente!”

But mine must live still to be plagu’d in hell.

Aveva previsto di sopravvivere a tutti . La sua concezione del tempo era dilatata, si poneva problemi a lunga scadenza e doveva fare i conti con l’invecchiamento della gente. Spesso le sue decisioni erano dettate da queste considerazioni. Quelli che conosceva, i suoi coetanei, crescevano, lavoravano, si sposavano, invecchiavano, morivano. Lui era il primo a sentirsi a disagio. Sembrava di volta in volta il fratello, il figlio, il nipote. Fino alla trentina di anni, quelli che lui dimostrava, gli amici non sentivano alcuna differenza, intorno ai 40 si incominciavano a porre qualche dubbio. Quando la sua diversità si faceva insostenibile, il loro impulso era quello di respingerlo, c’era qualcosa in lui che faceva paura, l’illusione della disponibilità perenne del tempo; non era nel loro codice genetico per cui, piuttosto che rimanere invischiati nelle sue maglie, la migliore difesa era la fuga. Lui, infatti non si muoveva. Sembrava andare alla deriva e lo si poteva giudicare negativamente, come abulico e un po’ vile uomo. “Dopo 600 anni ho deciso di darmi una morte, è da 50 anni che ogni giorno mi dico: oggi si conclude la mia vita. Ma non ci riesco perché ho paura, paura che oltre la morte non ci sia nulla, non so se vale per tutti ma per me, solo per me, sì; se qualcosa mi ha concesso la perenne esistenza qui, vorrà forse dire che di là per me non c’è nulla. Allora mi chiedo se non è comunque meglio questa condizione di morte vivente; felice chi non può decidere, deve morire, lo sa. Avessi avuto almeno un segno, 600 anni, nulla. Miracoli? Visioni? Mai una certezza, né diavoli, né angeli. Io ho visto come nascono i miti, le leggende, i santi. Il tempo fa dimenticare i dubbi che si nascondevano dietro le parole di chi aveva visto, alla fine resiste la diceria, ciò che desideriamo, perché tutto il resto è poco affascinante, poco magico ed il popolo vuole sognare.
Così dovrei porre termine a questa esistenza, l’unico mezzo che permette al mio pensiero di essere essenza?
Ora non crediate che i secoli mi abbiano assicurato maggior saggezza, anzi, sono un pessimo esempio. La possibilità che ho di un tempo illimitato mi fa rimandare tutto al dopo e non porto a termine nulla. Un mortale da questo punto di vista è di gran lunga più saggio di me, infatti proprio la ristrettezza dei tempi accelera il processo di apprendimento. Il mortale compie tutto in una sola vita. Io no, a me non basta una vita…

Sono pigramente privo di interessi, di ambizioni, perché averne?, non odio, non amo, tutto mi è indifferente. Non sento neanche la necessità di trovare una compagna per avere un figlio perché non devo assicurare la continuità della specie, io sono la specie, io sono il padre e sono il figlio, io sono la continuazione di me stesso. Non ho paura, non ho coraggio, sono codardo, sono audace, sono una carta bianca, indistinto, privo di umori e di colori. Me lo chiedo: chi sono? Potrei somigliare ad un albero che sta immobile e che cambia di abito ad ogni stagione; l’albero non pensa, non parla, vegeta per secoli, senza partecipare agli eventi, lascia che il vento lo scuota e che il fulmine lo colpisca. È più saggio un bimbo di sei anni che una quercia di mille anni. Forse è vegetale la mia vera natura, solo apparentemente appartengo al genere umano. C’è una forza più grande di me che mi tiene immobile, come radici grandi e profonde che mi bloccano al terreno. Non faccio nulla perché non ho stimoli, non rincorro la vita perché non mi sfugge. Ma allora a cosa serve la mia vita perenne?
Per me gli anni sono mesi, i mesi settimane, le settimane giorni, i giorni ore, le ore secondi; lascio che il tempo scivoli via, il tempo così prezioso per un mortale io lo butto via. Non ho una meta, non ho ambizioni, non ho scadenze , resto immobile come il pilone di un ponte mentre il fiume gli scivola ai lati”.