
L'uomo che non sapeva amare.
Era stato decisamente un bello spettacolo, una serata piacevole. Ma non mi era bastato per dimenticare l’odore acre del sangue di quella mattina, lo sentivo dappertutto, anche nel delizioso 
 giardino del conte D’Alibert, tra i fiori e le essenze delicate.
  La testa era stata messa dentro una gabbietta
  che pendeva 
 sulle mura di CastelSantangelo,
  con le mosche che ci facevano la giostra. Domani glielo avrei raccontato, domani; 
 ora sul fiume, 
 di traverso la barca ci portava sull’altra sponda. C’era il ponte pochi passi avanti 
 ma il principe B. aveva preferito così, diceva che gli veniva più vicino e poi faceva lavorare il traghettatore, un vecchio gigante dalla pelle arsa.
  Che satiro il principe, parlava solo di quello e ora, anche la cantante femmina ci voleva, una splendida creatura connazionale del conte, 
 il quale l’ aveva fatta recitare infischiandosene delle ordinanze, perché a casa sua faceva quello che voleva. Aveva promesso che prima 
 o poi nel suo teatro sarebbe accaduto, non lui ma altri, nel suo teatro una donna avrebbe recitato la parte di donna, non lui certo, altrimenti avrebbe fatto la fine di quel tal Barbero. 
  Il teatrino all’aperto del conte era una sciccheria, il casino costruito esclusivamente per utilizzare la facciata come sfondo del
  palcoscenico e avanti le scale che portavano al giardino, che fungeva anche da platea se la scena era grande e questa lo era. Lo spettacolo si era protratto sino a tarda sera, una messinscena tribale, una storia curiosa tra finti indigeni e la bella francesina che impersonava una dea. Al calar delle tenebre, luna nuova luna nera, il conte non si era arreso. “Signori, una piccola pausa, rimedio subito”. Il principe aveva colto l’occasione per fiondarsi dalla francese e le aveva chiesto se avesse già alloggio. “Qui, nel palazzo” . “E me lo chiama palazzo? Ah ah, 
 ma neanche come cuccia del mio cane… “. In effetti aveva quasi ragione,
  il “quasi” era d’obbligo per
  i suoi secondi fini che si leggevano dagli occhi spiritati, ma il casino D’Alibert era veramente un mezzo
  palazzo, una
  parete profonda poco più di tre metri, e due torrette ai lati, uno spazio corridoio per ognuno dei tre piani e due stanze una sopra l’altra in una torretta che si raggiungevano dalla scala che occupava tutta l’altra torretta. “Provvederò io al suo soggiorno!” , e certo che avrebbe provveduto. Che poi il fortunato, per quella
  sera sarei stato io, in quanto la dolce fanciulla avrebbe dimorato nella stessa casa d’affitto dove ero alloggiato, che il conte aveva in angolo a via del
  Polverone. Così deciso, un battere di mani ed ecco arrivare D’Alibert con due aiutanti che abbracciavano fasci di grossi ceri. “Conte, che ha derubato una sacrestia?” Le dame ridevano. “Poggiate, giù, su su”, con una vocetta 
 affettata, dava direttive, non pareva con quell’aria da piccoletto damerino evirato, era un vero mandrillo, sfornava figli su figli con la sua sposa bambina. “In un certo senso… me li sono fatti prestare dal sacrestano di San Giuseppe”. In breve, con la scena tutta circondata da moccoli, lo spettacolo riprese. 
  Il fiume nero e misteriosi corpi che scivolavano silenziosi, mi sembravano pezzi  di cadaveri, come quelli appesi  dal boia. Meno male che c’era la chanteuse a distrarmi, il principe aveva avuto proprio una bella idea. “Ti raccomando!”, disse ad un certo punto. “Mi raccomandi? E di che?” “Comportati bene” “Se non sei sicuro di me, perché non te la porti a palazzo?”. “Sei pazzo? Una attrice e per giunta femmina e per giunta straniera  al palazzo di un Papa?” “E allora… “ .  Un dolce approdo, il principe saltò per primo e da vero galantuomo porse la mano alla dama,  i due si avviarono sulla pedamentina di legno, lasciandomi solo. “Ehi, signor principe, c’è da pagare Caronte!”.  Erano già nel cortile che immetteva sulla strada. Dovetti sfangare due monete, in fondo mi ospitava; però mi incominciai a preoccupare che fosse anche capace di presentarmi il conto.   
   
    Si erano fermati a bere al Mascherone, lei rideva ad ogni parola, pareva gradire la sua ironia terra terra. Nel vedermi lui aveva fatto una battuta,  che non avevo capito seguita da una squillante risata della francesina. Quella per me non era stata una gran bella giornata, non avevo proprio voglia di partecipare.  “È più avanti, vero?”, chiesi serioso. “Sì, la prossima traversa”, e giù un’altra risata e lei a ruota. Arrivammo al portoncino, lui bussò.  “Ah, ma allora ci abitano?” “È il bottegaio che gestisce la  cantina sulla strada Giulia, sta al primo piano con la famiglia”. Sentimmo un rumore fragoroso e poi una botta sulla porta. Il principe attaccò a ridere, doveva aver capito che  era successo.  Aprì, tutto trafelato, con una mano in testa e un’altra che reggeva un cerino spezzato, un tipo  grassoccio con dei baffoni neri, si lamentava . “Ah ah ah, sei scivolato per la  scala… ah ah, hai preso una capocciata sulla porta… ah ah ah” . “Ohi ohi, signor principe .. è così…” Ovviamente anche la cantante se la rideva di gusto. “Gesù Giuseppe e Maria! Che è successo?”, una voce di donna che proveniva dal pianerottolo della scala. Era la moglie dell’oste. “Non ti preoccupare Teresina, è solo tuo marito che ha sbattuto le corna, eh eh, ma non si sono rotte. E meno male che ci pensi tu a tenergliele belle floride. Ah ah ah ah.”  “Principe, principe a quest’ora noi si dorme…  ecco…”, aveva rivolto lo sguardo verso l’interno, ”... e si è svegliata anche Lucia”. Qualche parola che si perdeva nel corridoio, Lucia l’avrei vista solo il giorno dopo. “Ora sistemiamo i miei ospiti e poi tutti a nanna”. Il principe già aveva deciso, io come stabilito avrei soggiornato all’ultimo piano, il sottotetto con il terrazzino,  la cantante in una stanza al secondo piano. Teresina mise un po’ d’ordine e rifece il letto per la francese. L’oste mi accompagnò facendomi luce sulla angusta  scala ad una sola rampa, seguito dal principe. “Bella piccionaia”, pensai tra me e me, ma come si dice a caval donato…“E a me Teresina non viene a sistemare il letto?” “Ah ah, quale letto? ah ah ah”, il principe stava proprio in vena  quella sera, anche l’oste ripresosi dalla testata, rideva. “Dove dormo?”, chiesi paziente. “Dove vuoi.. eh eh il sottotetto è tutto tuo… e c’è anche il terrazzino”. L’oste premuroso mi diresse nella stanzetta con finestra che immetteva al terrazzo, mi indicò una branda con un pagliericcio. “Per ora si accomodì, domani le faccio portare da Lucia un materasso decente”. Ringraziai l’oste. “Bene”, disse perentorio il principe, ora saluto la francese e…”  Rimase con le parole appese e una luce negli occhi che era tutto un programma. “Saluta la francese…  e non saltare troppo  che sotto c’è gente che dorme”, guardai l’oste che mi rispose con un’alzata di spalle e di baffi. “Notte, notte, notte, notte…” , il commiato del principe si spense nel buio della scala. L’oste mi aveva lasciato una manciata di cerini, delle piccole candele.  Restai solo, nel silenzio della notte al buio, mi accorsi di non avere sonno.
continua parte 2