mercoledì, dicembre 17

Dal "Diario di un essere perenne" 5





Io non ricordavo più il nome di quella chiesa, erano passati tanti anni da quando la visitai l’unica volta. Da fuori era rimasta la stessa, come me. Nessun segno di invecchiamento sui mattoncini che rivestivano la facciata sin da terra, senza basamento. La parete aveva una leggera inclinazione all’indietro con la statua della Madonna sporgente da una nicchia al centro, ero rimasto incuriosito da questo pavimento all’insù che invogliava alla scalata. Anche ora avevo lo stesso istinto e, poco prima di entrare, mi misi sotto sotto come feci allora, per sfidare la gravità.
All’interno, nell’unica navata, si percepiva l’odoro di antico e di vecchio. Poche decorazioni, le statue erano le stesse, ben lucidate, pulita asettica. Quella volta era estate e vi trovai refrigerio, le pareti erano state imbiancate da poco, illuminata e fresca. Ora mi proteggeva dal freddo portentoso di un inverno anticipato e le pareti erano di un rosa scolorito. A destra del presbiterio c’era una cappelletta rivestita di legno scuro, dal soffitto basso ed una trifora gotica con i vetri colorati. La luce che filtrava, multicolore, dava un effetto benefico, ed ancora lo provavo; in quella lontana estate torrida lì dentro sembrava una sauna, ne uscii subito, ed anche ora feci lo stesso, come se il ricordo mi condizionasse i sensi. Mi avvicinai al leggio, come allora. Ed io, ero lo stesso di ora? la condizione di essere perenne frastornava i miei pensieri, ogni volta che volevo distinguere il prima e il dopo. Per me tutto doveva restare immutato, eppure la vita degli altri, la loro esistenza esigeva cambiamenti; spostarsi, andare avanti, realizzarsi, vivere vivere viene pagato con la vecchiaia e la morte, è dovuto. Per me niente vecchiaia, niente morte e niente vita, amore vita morte, nulla, una condizione perenne della stabilità del nulla.
Meditavo su queste cose, in piedi avanti l’altare quando sentii dei passi ed un leggero colpo di tosse, qualcuno era appena entrato. Non mi voltai subito, c’eravamo solo noi, io e questa persona che doveva essere una donna matura; infatti, mi spostai appena, come per osservare i finestroni laterali, e la vidi. Era già avanzata parecchio e si trovava poco più a destra di me. Alzando la testa ci incrociammo in uno sguardo furtivo. Io conoscevo quella donna. La lunga esperienza sulle trasformazioni dei luoghi e delle cose aveva allenato la mia mente, riuscivo a decifrare quello che i segni del tempo mutano. Lei sì, io la conoscevo, lei era stata la causa della mia prima visita, ora non potevo crederci. Era lei, trenta anni dopo. Anche lei, certo, era rimasta per un momento a bocca aperta con un’espressione sbalordita; ma subito si era ricomposta e indirizzato lo sguardo al dipinto della Madonna nell’abside quadrato. La osservai di nuovo, la donna che avevo amato e lasciato senza una comprensibile ragione ai mortali. Ecco perché mi porto un fardello di ferite mai rimarginate, dolore su dolore, passione su passione, inconclusa vita inconclusi mali, io non supero i dolori, li accumulo, perché la memoria si conserva fissa, ripeto le stesse angosce e se ne aggiunge altra, il prezzo delle mie conoscenze. Aveva impercettibili scatti, che denotavano un leggero nervosismo, una vaga impazienza. Io sapevo, io so tutto, di quello che pensa la gente, del misconoscibile che miete vittime del dubbio sul razionale; pensava che non potessi essere io, era impossibile, irrazionale, eppure ero lì, davanti a lei, forse un fantasma. Non riuscivo a tenere gli occhi lontano, sentiva il mio sguardo. Non se ne andava, stava cercando indizi, ed il modo in cui la osservavo poteva essere una prova, piccola prova. Perché sono condannato a leggere i pensieri degli uomini? Perché non devo godere dell’ignoranza dei nuovi nati? Perché non posso meravigliarmi di una nuova alba e dei colori dell’arcobaleno? Perché non posso amare come un semplice mortale, come ogni animale, dalla vita breve come una libellula, il tempo di amare e morire, solo questo esige l’esistenza naturale. Perdermi anch’io nella vaghezza delle cose, nei profumi, nelle scoperte, del continuo consumarsi sino alla fine… Almeno il cuore, almeno quello mi era stato risparmiato, batteva ancora, e rimbombò nella aula quando lei si girò puntandomi gli occhi tagliati, i suoi occhi dove un tempo mi ero perso.
Aspettava che io parlassi, che le spiegassi o almeno che mi scontrassi; dal tono avrebbe forse capito. Dipendeva da me, ed io non parlai, la guardavo semplicemente, assorbivo con gli occhi la sua figura, inspiravo con gli occhi la sua immagine, come aria vitale per i polmoni. Rimanemmo lì a fissarci per un tempo indeterminato, avrei voluto che lei capisse, non potevo parlare, non potevo spiegare, è incomprensibile, in questa Terra così fragile e umana, io non dovevo esistere, già per lei. Il dolce sorriso, apparve finalmente, lo stesso che ricordavo, come l’avrei voluta riprendere tra le mie braccia. Impossibile. Abbassò la testa, poteva mai saperne più di me? Le donne hanno una capacità di capire oltre le parole, sanno leggere i silenzi e con il silenzio sanno parlare. Mai una parola di troppo, magari qualche parola di meno, e poi tutto sta alla bravura dell’uomo, nel decifrare il linguaggio nascosto. E stavolta era difficile. Ma i suoi occhi luminosi mi venivano in soccorso e dicevano: “va bene, non temere…” Al sorriso risposi con un consenso. Le uscì una voce lieve e flebile: “Sei tu…?!”. Quell’afflato le consumò tutto il respiro. Si appoggiò alla balaustra di legno. “Signora…”, porsi le braccia nell’atto di sostenerla. “La stessa voce!”, era un’altra prova. Respirò profondamente, quasi per rinsavire. “Non può essere, non è la persona che…”. “Certo, io non potrei essere la persona che…”. Mi scrutò con occhi severi, la mia voce e le mie parole sapevano di beffa. “A meno che lei non sia un fantasma…”. “No, un fantasma no, io sono semplicemente una persona, un uomo qualunque”. Seguì silenzio, avanzò lentamente in direzione dell’uscita, la seguivo reggendole delicatamente il braccio. “Tanti anni fa conobbi una persona, come dice lei… qualunque, somigliava a lei”, puntò di nuovo su di me, “mi dica, la verità, ci siamo conosciuti?”
“Non saprei, così… direi di no, ma mentirei, forse ci siamo incontrati, non posso esserne sicuro… forse molti anni fa”. Si fermò, sentii le sue dita nervose stringersi sul mio polso: “Molti anni? Quanti anni?”. “Oh no, dico per dire, anni… alcuni, quegli anni sufficienti perché io non la ricordi più”. Scosse la testa, avanzò allentando la presa: “Perché io dovrei ricordarla e lei no? lei è più giovane, dovrebbe avere una memoria più fresca”, e dopo una esitazione, “... perché tu… sei più giovane!?”
“Gentile signora, io non ricordo il suo nome, non ricordo… ciò non mi giustifica, per questo non merito la sua memoria, io merito l’oblio”. “Oh Signore divino! Allora sei veramente tu…”, barcollò. “Siedi, siediti qui”, le accostai la seggiola del banchetto delle offerte. Mi porse una carezza, emozionata: “Come può essere, come…” In quel momento entrò un signore, la vide, subito accorse chiamandola. “Cosa è successo?”. Lei mise una mano avanti per fargli capire di non preoccuparsi. “La signora ha avuto solo un giramento di testa, penso che sia nulla”. “Nulla”, ripeté lei. Mi scostai, lasciando spazio all’uomo che subito si prodigò. Indietreggiai lentamente. Lei non staccava gli occhi su di me. “Ti porto all’ospedale?”, disse. “Lui è premuroso.” Sorrisi: “Ah, anch’io ero premuroso…”. “Sì, lo eri…”. “Cara, lo conosci?” Avevo guadagnato l’uscita. “Chi?” “Quello!”, l’uomo alzò la testa ma non vide che una porta sventagliare pigramente sui suoi cardini. “Se n’è andato!” “No, era un sogno, ora sono desta ed è sparito…”.

1 commento:

Kaishe ha detto...

Intanto BUONGIORNO...

Appena posso torno a leggere!