mercoledì, settembre 29

NERO

45 L'odio che si era attirato speculando perfino sull'alto prezzo del
grano si accrebbe ancora di più quando il caso volle che si annunciasse,
in mezzo ad una carestia pubblica, l'arrivo di una nave da Alessandria
carica di sabbia per i lottatori di corte. Così, sollevatosi contro di lui
il rancore generale, non vi fu insulto che non dovette subire. Dietro la
testa di una sua statua si attaccò una frangia con la scritta, in greco,
«che adesso era il momento della lotta e che finalmente lo si sarebbe
deposto». Al collo di un'altra si appese un sacco con queste parole: «Che
avrei potuto fare di più io? Ma tu ti sei meritato il sacco.» Sulle
colonne si scrisse anche che «con i suoi canti aveva eccitato perfino i
Galli». Infine, durante la notte, si sentiva la voce di molti che,
fingendo di rimproverare gli schiavi, invocavano con insistenza un
«Vindice».

46 Inoltre Nerone era spaventato dai precisi avvertimenti che gli venivano
dai sogni, dagli auspici e dai presagi, non solamente di antica data, ma
anche recenti. In passato non aveva mai sognato, ma dopo aver fatto
uccidere sua madre, vide in sogno che gli si strappava il timone di una
nave che stava governando, che veniva trascinato dalla sua sposa Ottavia
nelle tenebre più dense e che ora veniva coperto da un nugolo di formiche
alate, ora che le statue delle genti, inaugurate presso il teatro di
Pompeo lo circondavano e gli sbarravano il passo; infine che il suo
cavallo d'Asturia, cui era particolarmente attaccato, gli appariva con la
parte posteriore del corpo trasformata in scimmia, mentre solo la testa
era intatta ed emetteva sonori nitriti. Dal Mausoleo le cui porte si
aprirono da sole, si udì una voce che lo chiamava per nome. Il giorno
delle calende di gennaio, gli dei Lari, ornati di fiori, si rovesciarono
in mezzo all'apparato del sacrificio; mentre prendeva gli auspici, Sporo
gli offrì un anello sulla cui pietra era effigiato il ratto di Proserpina.
Al momento delle preghiere per l'imperatore, quando già i cittadini dei
vari ordini erano radunati in folla, a fatica si trovarono le chiavi del
Campidoglio. Quando lesse in Senato il passo del suo discorso contro
Vindice, in cui diceva che i criminali sarebbero stati puniti e ben presto
avrebbero fatto una fine degna di loro, tutti quanti gridarono insieme:
«Sarai tu a farla, Augusto.» Si osservò anche che quando cantò per
l'ultima volta in pubblico, interpretò l'Edipo in esilio e terminò con
queste parole:
«Mia moglie, mia madre, mio padre mi ordinano di morire.»

47 Nel frattempo gli fu consegnata, mentre pranzava, una lettera che gli
comunicava anche la rivolta di tutte le altre armate; egli la lacerò,
rovesciò la tavola, scaraventò in terra due coppe di cui si serviva
volentieri e che chiamava «omeriche» perché vi erano cesellate alcune
scene di Omero, poi si fece dare da Locusta un veleno che richiuse in una
cassetta d'oro e si trasferì nei giardini di Servilio. Qui diede ordine ai
più devoti dei suoi liberti di recarsi a Ostia per preparare una flotta,
poi chiese ai tribuni e ai centurioni del pretorio se erano disposti ad
accompagnarlo nella sua fuga, ma alcuni tergiversarono, altri rifiutarono
categoricamente e uno arrivò perfino a gridargli: «È una così grande
disgrazia farsi processare?»
Allora, considerando varie soluzioni, pensò di portarsi
in atteggiamento supplice, presso i Parti o presso Galba o di presentarsi
in pubblico vestito di nero, per implorare dall'alto dei rostri, nella
forma più supplicante possibile, il perdono del passato, e per pregare,
qualora non fosse riuscito a toccare i cuori, che gli fosse accordata
almeno la prefettura dell'Egitto. Si trovò più tardi nel suo archivio una
allocuzione redatta in questo senso, ma si crede che abbia abbandonato
l'idea per il timore di essere fatto a pezzi prima ancora di arrivare in
foro. Rimandò così ogni decisione al giorno dopo, ma, risvegliato verso la
mezzanotte e saputo che i posti di guardia si erano ritirati, saltò dal
letto e mandò a cercare gli amici, e in seguito, poiché non aveva risposta
da nessuno, di persona, con pochi compagni, andò a chiedere ospitalità a
ciascuno di loro. Trovando tutte le porte chiuse e non ottenendo nessuna
risposta, ritornò in camera sua, da dove le guardie, a loro volta, se ne
erano già fuggite, portandosi via le sue coperte e perfino la cassetta del
veleno; allora mandò a cercare subito il mirmillone Spiculo o chiunque
altro fosse disposto a ucciderlo, ma poiché non era stato trovato nessuno,
disse: «Dunque, non ho più né un amico, né un nemico» e si mise a correre
come se volesse gettarsi nel Tevere.

48 Ma, frenato nuovamente l'impulso, cominciò a desiderare un rifugio
appartato, per raccogliere le forze. Il suo liberto Faone gli propose
allora la sua casa di periferia, situata tra la via Salaria e la via
Nomentana, a quattro miglia circa da Roma. Restando com'era, a piedi nudi
e in tunica si gettò addosso un piccolo mantello di colore stinto, si
coprì la testa, stese un fazzoletto davanti alla faccia e montò a cavallo,
accompagnato soltanto da quattro persone, tra le quali vi era anche Sporo.
Nello stesso istante, spaventato da un tremito della terra e da un lampo
che saettò davanti a lui, udì provenire dagli accampamenti vicini le grida
dei soldati che formulavano imprecazioni contro di lui e acclamazioni a
favore di Galba. Uno dei passanti che incontrarono disse perfino: «Ecco
gente che insegue Nerone» e un altro domandò loro: «Vi è qualche novità a
Roma, a proposito di Nerone?» Quando il suo cavallo ebbe un'impennata per
l'odore di un cadavere abbandonato sulla strada, gli si scoprì il volto e
fu riconosciuto da un pretoriano in congedo che lo salutò. Come giunsero
ad una strada laterale, lasciarono i cavalli, e passando in mezzo a
macchie e cespugli per un sentiero bordato di canne, Nerone arrivò a
fatica, non senza che vestiti fossero stesi sotto i suoi piedi, al muro
posteriore della casa. Qui, poiché Faone lo esortava a riposarsi un
momento su un mucchio di sabbia, disse che non voleva essere interrato
vivo e, fatta una breve sosta, intanto che gli si preparava un ingresso
clandestino nella casa, per dissetarsi attinse con la mano un po' d'acqua
da una pozzanghera che stava ai suoi piedi, esclamando: «Ecco il ristoro
di Nerone.» Poi, facendosi strappare il mantello dai rovi si aprì un
passaggio fra i cespugli e penetrò, trascinandosi sulle mani attraverso il
cunicolo di una grotta che era stata scavata, nella stanza più vicina,
dove si distese su un letto dotato di un modesto materasso e ricoperto da
un vecchio mantello; tormentato dalla fame e nuovamente dalla sete,
disdegnò il pane nero che gli si offriva, ma bevve un bel po' di acqua
tiepida.

49 Poi, dal momento che ognuno dei suoi compagni, a turno, lo invitava a
sottrarsi senza indugio agli oltraggi che lo attendevano, ordinò di
scavare davanti a lui una fossa della misura del suo corpo, di disporvi
attorno qualche pezzo di marmo, se lo si trovava, e di portare un po'
d'acqua e un po' di legna per rendere in seguito gli ultimi onori al suo
cadavere. A ognuno di questi preparativi piangeva e ripeteva
continuamente: «Quale artista muore con me!» Mentre si attardava in questo
modo, un corriere portò un biglietto a Faone: Nerone, strappandoglielo di
mano, lesse che il Senato lo aveva dichiarato nemico pubblico e che lo
faceva cercare per punirlo secondo l'uso antico; chiese allora quale fosse
questo tipo di supplizio e quando seppe che il condannato veniva
spogliato, che si infilava la sua testa in una forca e che lo si bastonava
fino alla morte, inorridito, afferrò i due pugnali che aveva portato con
sé, ne saggiò le punte, poi li rimise nel loro fodero, protestando che a
l'ora segnata dal destino non era ancora venuta». Intanto ora invitava
Sporo a cominciare i lamenti e i pianti, ora supplicava che qualcuno lo
incoraggiasse a darsi la morte con il suo esempio; qualche volta
rimproverava la propria neghittosità con queste parole: «la mia vita è
ignobile, disonorante.-Non è degna di Nerone, non è proprio degna.-Bisogna
aver coraggio, in questi frangenti.-Su, svegliati.» Ormai si stavano
avvicinando i cavalieri ai quali era stato raccomandato di ricondurlo
vivo. Quando li sentì, esclamò tremando:
«Il galoppo dei cavalli dai piedi rapidi ferisce i miei orecchi.»
Poi si affondò la spada nella gola con l'aiuto di Epafrodito, suo
segretario. Respirava ancora quando un centurione arrivò precipitosamente
e, fingendo di essere venuto in suo aiuto, applicò il suo mantello alla
ferita; Nerone gli disse soltanto: «È troppo tardi» e aggiunse: «Questa sì
è fedeltà.» Con queste parole spirò e i suoi occhi, sporgendo dalla testa,
assunsero una tale fissità che ispirarono orrore e spavento in coloro che
li vedevano. La prima e principale richiesta che aveva preteso dai suoi
compagni era che nessuno potesse disporre della sua testa, ma che fosse
bruciato intero a qualunque costo. Il permesso fu accordato da Icelo,
liberto di Galba, da poco uscito dalla prigione in cui era stato gettato
all'inizio della rivolta.

3 commenti:

Kaishe ha detto...

Buongiorno, o sommo Svetonio!!!

Ben trovato, caro Fabio...
Dici che potrebbe finire allo stesso modo l'epopea del nerone (d'asfalto) de 'noantri?

fabio ha detto...

Se realmente il popolo fosse sovrano, come lui va ripetendo, sì. Ma siccome il popolo non è sovrano, avendo lui anche una certa età, lo si lascerà sfumare e poi accantonare come un tristo ricordo del passato.
Ciao L.

Anonimo ha detto...

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